Insegnarti a dormire. A quattro mesi. Nemmeno.
Perché una cosa tanto naturale è così difficile?
Un rito fatto di una canzone, una coccola, poi la culla. Ingressi ripetuti. Lasciarti piangere a intervalli regolati dal nostro orologio e sempre più distanziati, come vorrebbe Estivill, oppure dai tuoi tempi e strilli, accorrere e calmarti, come suggerisce la Hogg. Sono informatissima, ho trascorso gli ultimi sei giorni appiccicata allo schermo del pc come un francobollo. Le mie pupille sono a forma di pixel. I miei pensieri gravitano incessantemente intorno a siti per genitori, articoli sul sonno dei bebè, consigli sui metodi.
Comunque piangere. Imparare piangendo.
Prima si comincia, più è facile, sostengono unanimi: sei un giunco morbido, ti si piega facilmente, è passato il tempo in cui era la vita a doversi accordare al tuo respiro, in cui, libera nei tuoi bisogni e desideri – se di desideri si può parlare – dolcemente t’imponevi, dettavi i ritmi, gli spazi, gli intervalli, i modi.
Avanti, adesso, si cresce, è già ora.
Mi stupirai, magari: accetterai l’autonomia del sonno, addormentarti da sola al tuo posto. Forse sei pronta. Certamente non lo sono io. Che ancora inseguo la giunzione mistica dei corpi, l’affiatamento sacro, la simbiosi che tra noi è stata difficile per via dei pianti continui. I tuoi, i miei. Uniti, questo sì, in lacrime che si schieravano da parti simmetriche di cuori soli. Proprio per questo devo insegnarti.
Proprio per questo vorrei rimandare: averti addosso, osservarti scivolare nel sonno placidamente, abbandonata e salda nella mia presa. Nel nido caldo di braccia che per sempre serberanno il momento.
Avrai tempo per scostarti, allontanarti, svincolarti da queste mani in braccio, allora, all’eccitazione delle tue scoperte, ai primi giochi, ai primi passi. E poi, oltre, abitante di una vita autonoma in cui sarò spettatrice, gli occhi attraversati da mille contrasti, parole vicine affastellate e mischiate ad altre di cui vorremo pentirci, negli anni a venire.
Per questo e mille altri pezzi d’amore – se amore è, nella sua fragile inquietudine – avrei voluto addormentarti in braccio e poi lasciarti riposare nella tua culla. Al seno, a volte. A spasso, altre. Senza che fosse una lotta perenne. Ma se questo incanto non riesce, farò ciò che è meglio per tutti, Isabelle: spingerti fuori, darti già ora l’autonomia necessaria. Le vie di mezzo non funzionano. O con me. O senza me.
Piangerai. Mi vedrai tornare a consolarti, crederai di essere salva. Invece me ne andrò di nuovo. Piangerai ancora, ancora tornerò. Illudendoti. Intanto, tra i tuoi sussulti, scruterò la tua bocca disperata, i tuoi occhi bagnati, cercando risposte che nessuno dà: se faccio bene, se faccio male. Se piangi perché hai qualche fastidio, la pancia, il naso chiuso, un mal di gola che ci stiam passando tutti, in questi giorni. Oppure solo rabbia perché ti lascio lì, costretta al sonno. Se puoi essere arrabbiata, se già conosci questa scomoda inclinazione del sentimento. Se è davvero meno grave la rabbia, rispetto a un malessere fisico. Se val la pena lasciartela addosso. Poi finirai col dormire. Per sfinimento. Allora uscirò con il mio trofeo triste e felice, dove monete di domande ancora tintinnano. La più grande, sopra a tutte, coperchio che oscilla e non chiude: era davvero necessario forzarti in questo modo?
Insegnarti a dormire
Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!