L’idea è stata di tuo padre. Lui, paziente. Premuroso. Dolce.
In questi giorni ronzava per casa come una mosca già mezza spappolata da un colpo di giornale. In mezzo al volo confuso dei suoi gesti stanchi, frasi che è meglio non ripetere: non che io sia innocente, dico anche io parole poco garbate che, se non ti arrivano nel significato, ti raggiungono nell’intonazione. Ma io sono notoriamente la “stronza”, quella nervosa, uterina: da me ormai te lo aspetti. Questo, invece, è davvero un colpo basso.
Se da grande ti sentirai insicura, se avrai dentro un piglio amaro, un nonsoché di ruvido che lacera il tuo cuore libero, sappi, ti ripeto: l’idea è stata sua. Io ho solamente colto l’occasione: eravamo dai nonni, hanno un lettino da campeggio, quando siamo lì ci fai il sonnellino del pomeriggio senza accusare nulla. Non sembri infastidita dalla quasi estraneità della stanza, dalle reti che circondano il tuo riposo: stai lì e dormi, piccolo pesce caduto nella trappola. Così chiudiamo quel giaciglio pieghevole, lo riponiamo nella sua custodia azzurra che recita weekender, e ce lo portiamo a casa: weekend o meno, qui le notti sono tutte uguali. Speriamo, piuttosto, che sia uno sleepstarter.
La cucina la conosci, la conosce anche il tuo sonno, le ore che tuo padre mi dà il cambio, e ti porta con sé, su quella branda recuperata a malincuore dalla cantina ormai ben quattro mesi fa. Solo che questa volta la branda non c’è, il babbo neppure. Sistema il lettino, lenzuolo, coperta, il piccolo doudou con cui ti mettiamo sempre a letto nell’illusione amorevole e premurosa che quel gingillo di ciniglia ti valga ad associarvi il sonno. E, mentre il frigorifero batte i suoi colpi come un pendolo (non chiedermi cos’ha, è così anche se è nuovo), sua sorella, la lavapiatti, risciacqua le stoviglie nel buio. Forse ti culla.
Cerco tuo padre nell’altra metà di un letto finalmente indisturbato, la voce libera da ogni cautela: “Riesci a dormire?”
Lui si volta appena, la sicurezza e il sonno in parti uguali, nei suoi occhi verdi che scolorano.
Ti ho lasciato una piccola luce accesa, nel bagnetto adiacente, la porta socchiusa, una lama sottile come un bacio, come il bacio che ti ho posato, pensando che è la prima volta che non dormi con noi, in camera nostra. Serve più a me, che a te: sia la luce, sia il bacio.
Poi sono andata a letto, gli zoccoli che non mi curo di zittire. E, mentre papà già dorme – lo sento – la “dolce” sono io. Incazzosa, spesso, eppure ora mi sfaldo come cialda. Fa strano, questa solitudine, la tua distanza odora di esilio. Ho un’emozione sbieca che mi traversa come la riga di pioggia su un vetro. Lo so, è sopravvivenza, mi aggancio alla rabbia viscerale che mi genera ogni tuo maledetto risveglio, alla spossatezza delle troppe volte che non bastano dieci minuti, che provo per un’ora di fila a rimetterti giù nel cuore della notte. Ma questa separazione sembra sciogliere ogni rancore.
“E se si sveglia?”
“Si riaddormenterà” mi ha detto lui, serafico.
“E se piange, strilla, si dispera?”
“Si riaddormenterà.”
“Ma dovremmo almeno andare là a calmarla, e poi tornare di qua. Non la si può lasciare così, si sentirà abbandonata! Nemmeno Estivill…”
Finché mi acquieto quasi fossi io, quella esiliata. Mi rassegno al sonno, svanisco coi miei dubbi.
Riaffioro qua e là, guizzi rapidi, l’orecchio teso, gli occhi aperti come mi aiutassero a sentire meglio. La cucina è dal capo opposto della casa. Mi chiedo se hai freddo, se stai dormendo, oppure ti sei già tirata su dritta in piedi. Se hai capito dove sei: eri già mezza ubriaca quando ti ho messo lì. Tramortita e tradita.
Alle sette e un quarto la notte è passata: “Sei andato?”
“No, io no. E tu?”
“Io no, ma ho sognato che ci andavi tu.”
Forse hai davvero fatto una tirata sola: non capitava da almeno otto mesi. Avrei ancora dozzine di ore da recuperare, ma ho fretta. Mi alzo, attraverso la domenica che ancora dorme: in cucina è rimasto tutto come l’ho lasciato, come se nulla avesse infranto la notte.
Il lettino sembra vuoto, quasi non ti trovo: sei una pallina a piedi nudi che ti sbucano da sotto il sedere, immobile, tutta raccolta al fondo, di traverso. Fuori dalla coperta. Capisco, dalla tua posizione, che hai lottato. Chissà quando, chissà come. Non lo sapremo mai.
Chissà se hai dormito sempre, se hai dormito bene, se mi hai cercata, se hai pianto, se hai avuto paura. Se ricorderai. Io so che mi sei mancata. Che sono ruvida, ma fragile. Che essere un po’ duri e fermi, in certi casi, può valere la pena. Ma ti ho cercata, a metà tra i sensi di colpa e l’apprensione. E ora ti stringo e t’inzuppo di baci: tu sorridi come fosse niente, felice. Serve più a me, che a te. Come la luce di stanotte.
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