28 gennaio 2019
Da un mese non ti ho più.
La lavatrice sbatte i panni. Il fasciatoio è rimasto lì. I tuoi fratelli sono a scuola. E, fuori, nessun oggetto sa.
Non il ghiaccio sulle strade, non i merli, i rami ossuti e intirizziti. Non le campanelle che trillano ai ritardi, lo stormo frettoloso dei grembiuli. Nemmeno io, fino a due minuti fa. Mi lascio prendere dalla circolarità di quei miei disturbi che per un po’ avevi magicamente interrotto con questioni più grandi. Ci avevo pensato, che arrivava il mese. Il mese e il ciclo. Un corpo impeccabile. Ci avevo pensato quando ho dato appuntamento a una donna delle pulizie perché venga proprio oggi per un primo colloquio. Non mi era sembrato così grave. Cosa dovrei fare? Accendere lumini intorno alla tua terra? Accovacciarmi e bere la tua assenza?
La vita procede.
Poi mando una mail, il mio prossimo post per il portale per il quale lavoro. È un attimo, è «invio»: la data stava lì, e di colpo mi è parso che gridasse.
Ciao amore mio. Dormi bene. Viaggia, ridi, sogna. C’è un posto speciale dove tutti voi state, chissà quanti amichetti hai adesso. È la nostra, la nostalgia più aspra, invischiati in numeri e date che voi avete già perso. In solitudini a uno schermo, in abbracci a chi rimane. Mentre voi siete liberi.
Ieri ho avuto un’intuizione. Qualcosa mi diceva «è solo questione di tempo»: ci vedremo in un altro modo. Ogni madre abbraccerà ogni figlio: a tempo debito. Basta solo aspettare. Basta. Aspettare.
E adesso vado a infilare una maglia. Ad aprire a quella donna, che deve venire.
***
29 gennaio 2019
L’ho fatto. Oggi è stata una spinta senza resistenze. Resistere sembra sempre un pregio, una virtù. Poi però si decanta la flessibilità agli eventi.
Il mio vento di questi giorni sei tu. Così sono uscita, un raptus secco come una porta che sbatte. Manuel. Mi piace dire il tuo nome, adesso.
In certi attimi ho creduto che fossi la scusa per piangere quello che manca. La gruccia cui appendere le frustrazioni e i dolori di tutto. Ma oggi scappo in una giacca a vento, fuori gennaio non molla, apro la porta finestra del giardino, esco in terrazzo. Lo faccio: mi accovaccio davanti al tuo minuscolo feudo. Sotto i rami dell’oleandro. Carezzo la finta lapide, non l’avevo mai guardata da così vicino: è un cartellino di carta rivestito di scotch, si conficca nella terra con uno stuzzicadenti. Come una bandiera infelice. Ho cominciato a scuotermi in singhiozzi che di solito non attentano al respiro. Sugli occhiali una tempesta di gocce. Ho sperato che la vicina non ci fosse, ho guardato brevemente: nessuna sagoma, nessun rumore che non fossero i miei. Poi ho preso a carezzare la terra. Non ho niente di lui, ripetevo. Non ho niente di lui! Non un oggetto da toccare, non una foto, un braccio, una ciocca di capelli.
Forse quando muore qualcuno che non è nato c’è un supplizio che è unico: non avere ricordi condivisi.
[Photo by Rene Bernal on Unsplash]