GIOVEDÌ 6 DICEMBRE 2018
C’era stato quel blackout.
I figli giocavano con le torce e poi a un certo punto si erano stancati. Eravamo sul divano, la noia cominciava a coprirci come un lenzuolo fastidioso in estate. Sfioravo Mathias, ho lanciato due piccoli ormeggi romantici, c’era qualcosa di provocante in quell’assenza di luce. In questo imprevisto fermo all’ordinario.
Ci ripenserò tante volte. Penserò a quanto ci è costato quel guasto.
Litigammo. Sono mesi che litigo con tutto, con la vita col corpo con gli editori con la sorte. Ci infilammo in una sera. Fu come quelle intuizioni che arrivano geniali e scomode. La seguimmo.
Ho ricordi possenti, di quei momenti. Come radici enormi di grandi alberi a venire, ficcate profonde nella terra dei giorni.
Ogni sera fumo la mia sigaretta davanti al condominio che scolora, al suo clinker che smette di luccicare. Guardo se qualcuno aziona la luce nelle scale, guardo qualche cucina che si accende per l’ultimo sorso d’acqua prima della notte. Penso «così lo uccidi». Penso che ho dentro un figlio.
Perché lo penso? Non c’è stata alcuna premessa fondata, alcuna possibilità reale. Alcun desiderio. Sono oltre il crinale dei piccoli body e delle notti rotte. Oltre tutti quegli ammennicoli che restano in casa e in cantina solo per inerzia. Sono oltre la ragazza che fui e oltre la madre che sono stata per un decennio. Sono alla mia rinascita nel mondo. Lenta, col corpo che s’infrange, ma tenace. Sono io. Sono questa che si sa e non si sa, si trova nello sputo di fumo d’una sigaretta serale, in quel piccolo ventre che ci creiamo credendo di metterci al mondo in così poco.
Un’altra sera un altro piccolo valzer. Le luci davanti, le siepi che dondolano per qualche uccello superstite.
«Come lo chiami?»
Scaccio il pensiero perché ho paura. Di scoprire che, sotto, il desiderio mi fa lo sgambetto, allunga le sue gambe sempre troppo ingombranti sui miei passi. Non desidero nulla, mi dico. Sto solo giocando.
È giovedì il giorno del ciclo. Dormo male da tempo per spasmi ai polpacci, sono i farmaci per l’asma oppure è l’ansia. Ieri sono stata alla presentazione di un libro sull’infertilità e la procreazione medicalmente assistita. Seduta in mezzo a sconosciuti, nel grande oculo chiaro della Mondadori in centro, davanti a un albero di Natale che han deciso di accendere proprio in quel momento. C’era un orto serrato di gente e giacche nella piazza, le uscite del metrò erano tutte chiuse tranne due, in qualche modo sono arrivata a questa tana e l’albero sarà acceso quando uscirò di qui. Anche la serata è accesa: è vite che cercano vite e sbattono su scogli. È la schiuma di pianti che non conosco, è verità grandi come balene in acque che non lambiscono la mia realtà di donna fertile, di madre. Sono seduta lì e penso alla mia fortuna. Sono seduta lì e quella voce scherza di nuovo, è come se fossi una lampadina, una lucciola nel loro buio. Quelle lottano e non trovano il figlio, e tu invece sei incinta di nuovo. Mi vedo da fuori, muovo le gambe, mi sistemo le mani sotto le cosce, ondeggio per scacciare questo occhio di bue che mi sento addosso, che mi metto da sola.
E poi c’è questa mattina. Mutande pulite. Carta che infilo e resta bianca. La casa annega nei figli che sono a scuola, nel silenzio i pensieri sbattono come bandiere, il silenzio è un vento troppo forte per fermarle. Google non mi rassicura. Il vecchio orso del web, le sue pagine di pelo. Nessuno lo sa. Solo Google e io. Vado da una stanza all’altra, ascolto un’acidità di stomaco imperante. Poi penso vuoi crescere, no? Vinci le tue paure, esci: compra sto cazzo di test. Compralo.
Il momento in cui decidi è la fiamma che in un istante inonda. E tu sei carta di giornale, smetti tutte le tue righe, infili i jeans, hai perso altri due chili in questi giorni, l’hai scritto anche su Facebook, hai scherzato «odiatemi», sei l’unica che vuole ingrassare in vista del Natale. Non spengo nemmeno le luci. Guardo l’orologio del salotto: sono le dodici meno venti. Lo guardo perché mi accompagno come un cane che il padrone accontenta: usciamo, tempo un quarto d’ora e siamo indietro, non un momento di più.
Che cosa penso, mentre cammino? Penso alla memoria: il corpo e il cuore hanno i ricordi incisi anche dove non sai. Quando la vita scuce un piccolo lembo loro vanno per somiglianza: ecco perché mi sento incinta. Poi penso se è negativo: sorrido, va bene, va meglio, non ho mai visto un test negativo, è ora di provare quest’esperienza. Vado lontano, scarto ogni farmacia dove mi conoscono, raggiungo quella sulla via grande dove in autunno vengono le giostre. E a Mathias come lo dici? Gli metto il passeggino davanti alla porta quando entra. Scherzo. Non lo so. Gli dico di tornare dall’ufficio. Gli dico così e basta. Cosa ti aspetti? Non voglio pensarci, quando sarò dinanzi al risultato, scoprirò le mie reazioni. Alla fine con il test si scoprono due verità: quella biologica e quella emotiva.
(Maddalena Capra, O virgola 6)