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Altre Verità

Ce qui reste

Siamo tornati, l’estate è scappata sotto l’autunno parigino, al rientro troviamo la stessa pioggia, gli ombrelli, solo un po’ meno vagabondi, senza turismo né quel vento che batteva i moli, la Senna. Domani comincia la scuola, ho passato le ultime ore tutta infilata nei bambini come quelle truppe dense di folla nei metrò della capitale francese. Adesso mi scavo la mia nicchia, disfo i bagagli emotivi.

5ème étage

L’appartamento si trova al quinto piano di una scala ripida, il corrimano come quello dei vecchi tempi, sali e non lo sai mai, quando è il tuo. Poi capisci il perché di quell’aspirapolvere a un piano, un flacone di detergente a quello successivo. La targhetta col numero la scovi solo all’ultimo giorno. Prima ti sei affidata a questo: il nostro piano è quello del flacone. Un minuscolo angolo cottura ma nessun tavolo, un divano letto che aperto ospita mezzo marito. Un letto singolo in un’altra stanza, che Mathias sposta per azzardare un giaciglio matrimoniale.

– Comunque è stata con un uomo, la tipa.
– C’è un goldone?
– No.

Quel paio di boxer resterà in un canto della stanza fino all’ultimo, nessuno che osi toccare.

Bon appétit

Incredibilmente formali, i francesi (o, almeno, i camerieri) vantano altresì un’insistenza acchiappa-clienti al limite dello scassa maroni. Ti basta attraversare la strada, atterrare nei pressi del bistrot all’angolo e ti battezzano col Bonjour. Ti fai spazio tra i clienti, superi un altro cameriere, e ti buschi il secondo bonjour. Fermarsi a scorrere un menu è sottoporsi a una raffica di saluti come nemmeno quando si fa la rimpatriata con gli ex compagni di liceo. E anche quando sei già entrato nel locale la trafila ricomincia a ogni inserviente: “Vous êtes?” “Deux, s’il vous plait”. Però ci godiamo quasi tutti i must che mi ero annotata mentalmente.

En promenade

Ho visto orde di senzatetto, mendicanti, uomini, donne. A qualsiasi ora. Tiravo dritto, “Non capisco”, fai il giro della piazza, ripassi davanti allo stesso sguardo, ricevi la stessa domanda, dai la stessa risposta: “Sono sempre io e, sempre, non capisco.”

Abbiamo fatto decine di chilometri, prendiamo una direzione, una meta e poi siamo morbidi, ci è rimasta quella cosa che abbiamo sempre avuto, l’inefficienza serena senza puntare la sveglia, senza tracciati da vincere. Il primo giorno siamo all’Opéra, al Trocadero scivoloso sotto la pioggia e un vento che non tace. A cercare maglioni, rimedi al freddo che mi azzanna. Il sabato andiamo su, a Montmartre, voglio quella scalinata dei bianchi e neri, l’abbiamo già fatta una volta, adesso ci hanno messo accanto una funicolare, una scusa per un altro whatsapp ai figli, Patrick ci invidierà a morte. Al Sacré Cœur la pioggia scherza con gli ombrelli, piscia a ondate e poi si fa da parte, quando ci dà dentro siamo turisti nell’ennesima bottega di souvenir. Non puoi mica tornare senza qualcosa per i figli, tanto. E conta bene, che tutti abbiano uguale, in parti uguali, lo zaino vuoto s’ingozza in fretta.

E poi le chocolaterie, lui le ha segnate su una mappa, lo vedi i giri che facciamo? noi ci becchiamo un monumento tra un cioccolataio e un altro. Il grande non mi ha mai spopolato, in cuore, quelle grandi corse emotive, quella pelle d’oca. Certi spazi, sì, la Grande Arche non la puoi mancare, sei piccolo come uno di quei piccioni, lì sotto, ti fa bene, ti rimette nella tua quadratura. E poi è me nove anni fa, quando venivo con Patrick nel marsupio, Mathias che non lo sa, mi vede sbucando dal metrò, nei primi mesi che eravamo in tre. Andiamo a piedi a Puteaux, dieci minuti sotto un’altra pioggia. Poi il cielo decide di farsi spettacolo, si spettina, butta grandi laghi azzurri e lo fa apposta, quando arriviamo lì sotto dove abitavamo. Quando ci spingiamo nella piazza della Mairie dove ci siamo sposati.

Dove le nostre mani intrecciate trovano sempre lo stesso stupore: di scoprire che tutto è uguale e tutto è andato avanti, malgrado la nostra assenza.

Mille volte questi scorci, mille più del Louvre o dell’Opéra. Queste vie a colori pastello, le mansarde aggrappate ai piccioni, alle ringhiere di ferro battuto, la Senna così ampia e materna, i giardini, le boulangerie all’angolo, l’Ile de Puteaux, la collina, il ponte. Le péniches attraccate, le nuvole che stanno per cadere e poi non cadono mai.

Ce qui reste

Mi ha divertito il “cinema”, mi hanno trafitto i bambini in strada, mi ha commossa il trio di colore.

Quello che resta è arrivato inatteso, è ciò che ti viene incontro come una folata di vento.

All’Opéra stavano girando un film. Fuori, davanti. C’erano due ballerini belli e infreddoliti ma un po’ insicuri. Quando siamo tornati fuori dopo il giro all’interno i due ragazzi erano improvvisamente brutti, però sapevano ballare. Siamo rimasti un sacco di tempo a guardarli, il fatto che la controfigura avesse la felpa più scura dell’attore non mi dava pace.

In metrò ho visto una madre con un bimbo piccolo, chiedeva l’elemosina. È stato il primo, ce ne sono anche qui, forse è che qui non giro molto. Forse era troppo piccolo. Forse è che quando sei in vacanza certe miserie ti saltano addosso. Ce ne sono troppe, a Parigi. Troppe madri con bimbi o bebè. Al terzo che vedo mi fermo, l’euro cerca il fondo del bicchiere di carta. Mi sembra inaccettabile, è un bebè, fa freddo, ha un solo piccolo gioco, si arrampica sulla madre. Poi faccio due passi, guardo la vetrina di Paul, cerco il prossimo acquisto.

Loro sono tre uomini di colore, l’acqua va e viene, spruzza fine sulle teste, la gente viene e, invece, rimane. Suonano una chitarra, cantano, uno batte i palmi su non so cosa. Ci sono capitati, la gioia non dà appuntamento, la loro musica ci tiene lì per tre canzoni, è solo il freddo che poi mi dissuade. Se ti avvicini al terzo di loro, quello che vende i cd, lui ti abbraccia e vi fate la foto insieme. Ne fa una con una donna araba, una con un’orientale, un’altra con un’europea. C’è tutto il mondo, su quei gradini,

il mondo che possiamo avere la musica ce l’ha già.

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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