(ET SI CE N’EST PAS TOUT, JE REVIENDRAI)
Quando in Francia vai da un bottegaio, un panettiere per esempio, e ordini qualcosa, poi chiudi dicendo così: “Ce sera tout, merci.”
È tutto. Grazie.
Non ho altro da aggiungere. Per qualche momento ho pensato che. Avrei voluto forse. Sognavo invece. Ma è stata una vacanza meravigliosa.
Fuori il cielo mi aiuta, decido di chiudermi per l’ultima volta nel mio angusto scrittoio, nella penombra che sempre regna in questa casa. Ha preso a piovere, gocce enormi che saltano sull’erba alta, l’ombrellone appassito, il tavolo chiazzato. L’ultimo giorno è sempre ruvido, lo prendi da una parte, la parte buona, quella che dici siamo ancora qui, tu vivi e basta, e allora il sole di stamattina potevi tenertelo addosso su uno sdraio dei nostri, qui fuori dove adesso balla il prato. Ma non ti riesce. Allora no, dall’altra parte, quella che il tempo lo punzecchia e non ti molla, non puoi sprecarlo, allora dentro tutti in macchina, andiamo a Combloux, Combloux ci manca, quest’anno, è una tappa che avevamo in programmi taciti e forse inconsapevoli.
Perché il bello di questo posto è che è nostro. È il primo, da che Mathias e io siamo famiglia, ereditato da nessuno, che abbiamo scoperto noi: inaugurato. E poi quest’anno ci siamo tornati, e se va così ci torniamo ancora, e poi di nuovo.
È così che nascono le storie: anche passando sempre dalle stesse fermate, facendone appuntamenti.
A Combloux faceva un caldo porco, 35 gradi, abbiamo sudato ritrovando stupori: il laghetto artificiale mi sembrava più vicino del solito, Isabelle ha creduto fossimo lì per quello, vede l’acqua e il resto si snuda di qualsiasi attrattiva. Per contro non ha la voglia di un passo, non le è chiaro che i muscoli nei primi affanni sono sempre un po’ spessi, che le gambe devono partire, per lei è “sono stanca”: subito. Patrick ha sempre camminato bene, fa la via crucis delle fontane, a ognuna svuota la sua borraccia, la sciacqua due volte, la riempie di acqua nuova: non importa se l’ultima era cinque minuti fa. Sarah l’aspettiamo. Sempre. L’altro giorno in macchina ho fatto il conto: circa venti minuti per ogni uscita, due o tre volte ogni giorno… Vuol dire che in tre settimane di montagna abbiamo passato almeno 15 ore ad aspettarla, i finestrini abbassati, le gambe a penzoloni dalla vettura. Più le soste in giro: Mathias viaggia ad almeno quattro caffè al giorno, uno se lo fa lui, gli altri sono pedaggi da toilette.
Torno diversa e uguale. Torno che sono come il portellone dell’automobile: non si chiudeva, c’era qualcosa che gli impediva quel click finale e salvifico. Io quel click lo inseguo da una vita intera. Mathias dice forse è un rametto con cui giocava Sarah: sempre colpa dei bambini. Poi oggi lo fa sistemare, gli trovano dei sassolini. Invece a me non mi sistema nessuno. Parto così: gonfia. La nostalgia che mi lascia il bagagliaio spalancato.
Courmayeur, lontano e sovrascritto poi da Les Contamines, da lì sono venuta via facile, ogni tanto mi tornava su in qualche bosco che mi ricorda il Verrand, oppure quando hai le gambe usurate e per istinto pensi a quella casa, quel tinello così familiari, l’acqua gassata dal frigo all’ingresso. La prima mattina qui, quella l’entusiasmo non si era ancora risvegliato dopo l’arrivo, la novità, eppure poi si rimarginava rapidissimo, l’inizio di una nuova vacanza è pelle giovane, ha una spinta inesauribile.
Abbiamo troppe foto, nessuna tutti insieme, e migliaia di buone ore. I posti che sapevo, tenuti dentro un anno intero, e poi scoppiati fuori come sacchetti buoni, avrei patito a mancare l’Etape, il suo specchio d’acqua coi pedalò che si pedalano a mano, il Parc de Loisirs dove si finge il mare in quelle rive di sabbia e palette, il Nant Borrant, Roselette e i mirtilli che “guarda che non sono tutti mirtilli” e poi c’avevo ragione, ché esistono anche i mirtilli falsi. Il Monte Bianco invece si vede dappertutto.
– Non è il Bianco, è il Dome du Miage – mi redarguisce Patrick.
– Non importa: comunque è bianco.
La casa si è talmente animata, nei giorni. È piena di scuse per convincerci che questo posto è nostro.
Lo scarabeo blu raccolto ieri, i suoi fiori secchi, i pupazzetti mescolati alle carte in una grande pentola, rane di plastica uscite dalla scatola e pronte a tuffarsi nel lavandino del bagno. I fogli disegnati a metà, la pallina sempre a filo con qualche mobile dove andrà a nascondersi al momento dell’appello. Adesso sembra impossibile riprendersi tutto, sfollare gli ammennicoli. Sembra che ci vorrà un secolo, che ogni cosa fosse già qui. Invece si fa presto, sempre così presto, tutto sommato. Anche troppo.
Ci resta l’ultima spesa, rapidi per la pioggia e l’ora, esco mentre le nubi fumano sopra il torrente e il villaggio comincia i suoi luccichii. Pochi pezzi, lo stesso supermercato dove la prima sera ti sfiatavi di meraviglia. Ti concedevi tutto, dovevi vestirla da zero, quella cucina, quel frigo. Prendi quattro tavolette di cioccolato da portare a Milano, tre grandi trecce di pane al burro, due banane per domattina.
E poi saluti, la solita ragazza.
Et là c’est tout: merci.
(Et si ce n’est pas tout, je reviendrai).
Commenti 2
In questa estate per noi di mancate partenze, un po’ ti invidio per tutta la tua montagna. Però proseguo, sapendo che la prossima estate sarà ancoil più bello ritrovare quei posti che sono un po’ una seconda casa e scoprirne di nuovi, in cui sentirsi subito a casa. Perché alcuni luoghi hanno in se quella magia, se si è aperti a loro.
Leggere che la tua vacanza è stata meravigliosa, nonostante Sarah con le sue tappe, mi fa davvero piacere. Un piccolo tesoro di bei momenti per affrontare l’inverno che verrà, nella speranza che sarà altrettanto meraviglioso, anche se più abitudinario.
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Che belle parole, Giulia… Le tue “mancate partenze” sono in verità una super-partenza, che stai tra l’altro vivendo alla grande. Come sta il ricciolino? Quello che dici sul sentirsi a casa in certi posti e scoprirne di nuovi che subito facciamo nostri è vero e dolcissimo. Grazie e magari riesci a fare almeno un fine settimana da qualche parte, no? (In ogni caso quantomeno non vivi in città).