NON SIAMO FORME CONCENTRICHE SIAMO DUE E SIAMO UNA, SIAMO QUELLO CHE UNA FA DELL’ALTRA E QUELLO CHE NESSUNO POTRÀ MAI FARE DI NOI STESSI
È stato più facile, in quella sua galleria tra i denti che aspettavo, l’attesa più lunga e Sarah che si stufa, gli ascensori e il pannello bucato anche lui. Quando viene a prenderci sono ancora salda nelle mie protezioni, lui accenna un saluto, lo lascia composto, fa contrasto con quel suo ventre un po’ abbondante, che gli metteresti in mano una forchetta, seduto a un tavolo con la tovaglia a scacchi. Invece il tavolo è sempre quello, lo studio taceva arroccato sopra le chiome dei palazzi, e noi siamo diversi.
Faccio cominciare Mathias, voglio sembrare più lenta, addolcita dai mesi, remissiva. Sembrare. Lui dà il primo colpo della partita, il primo lancio. Antonio raccoglie e tocca già a me, sono io che subentro mio malgrado, i sintomi sono in remissione, gli basta, miglioreranno ancora. È incoraggiante, oggi, si è preso un po’ di spinta buona, le vacanze gli hanno lasciato la pelle chiara però si sono raschiate via un po’ di ruvidità.
Bado alle mani, le gambe muovono piccoli gesti sotto la scrivania, la voce resta salda e morbida, mi sono addestrata in mesi e il suo orecchio sismografo lo sente, registra subito le mie inflessioni, le sbavature sfuggite alle corde vocali. Però sta di qua. Ha messo quelle sue dita spesse sul piano, gli studio unghie piccole, falangi imbottite forse da quella forchetta che manca al personaggio, e questa volta non dà colpe. “Non la sto colpevolizzando”, lo dice, una volta, due. Che noi siamo semplicemente i suoi occhi, quello che può vedere di questa storia.
È un’ora lunga, i miei fogli sono rimasti taciuti, mille parole e qualcuna qualcosa ha preso, da quegli appunti, qualche domanda somiglia a quelle annotate ma solo perché ritornano. Le stesse domande tornano sempre. Com’è stato possibile, per esempio. Tu credi che in quell’ora col culo lassù, in quello studio all’ottavo piano, troverai chissà cosa. Ma
hai fatto salire la paura in ascensore con te. È la tua crema antirughe. Perché ci vuole una bestia di coraggio per voler cercare davvero, e beccarsela tutta, la verità che arriva coi suoi raggi dannosi.
Comincio a credere. Piccole, piccole cose. Guardi un cratere lasciato così ampio e totale e cerchi errori grandi e totali. A chi diceva la goccia scava la pietra dicevo gli errori comuni non fanno una voragine.
E se fosse.
Imparare. Da capo. Non tutto, ti tieni quel tono che ti sfugge, troppa dolcezza ti sfigura. Ma devi smetterla di difenderti, prima, e di colpevolizzarti, poi. E imparare: la possibilità di quei piccoli sgorbi materni. Che poi tua figlia ci ha disegnato sopra. E poi ti cade una goccia di succo, non te ne sei accorta. Sembrano gli occhi di un corvo nella notte. A te non pare, e a lei fanno paura.
Non siamo forme concentriche siamo due e siamo una, siamo quello che una fa dell’altra e quello che nessuno potrà mai fare di noi stessi.
È successo. Che non vuol dire subire. Hai la tua parte di azioni e omissioni, che non vuol dire colpe. Però vuol dire possibilità. Prendi quello che vedi, che adesso lui si appoggia ancora in quel modo, indietro sullo schienale, e ti fa di nuovo spazio. Ha messo via le dita, non punta più nulla, niente e nessuno. E parti.
Il resto comincia a scrollarlo, che non è possibile, che allora cosa posso, che…
– Arrivederci.
Comincia dentro un sentimento strano, somiglia a lasciarsi fare, come l’erba alta nei campi. Accettare, dondolando, di essere un filo nel vento. Che però non lacera.