In certi momenti è semplicemente più difficile. La Vita è sempre lì, ti freme tra le costole, saltella sotto la maglia. Eppure.
Oggi ho fatto colazione in piedi, come al bar. Ma non era per fingere un bar.
Patrick occupava il tavolo, il Mac davanti rimandava professoresse che si ingegnano, compagni che si attardano.
«Ragazzi, Vanessa c’è? Aiutatemi, chi manca?»
Vedi queste persone comuni, queste semi autorità che di solito dimentichi avere una vita oltre le aule in cartongesso, i colloqui individuali, le riunioni che usavano ammassarci, tutti appollaiati in banchi desueti per la nostra età di genitori. Le polemiche, le rivalse perché i compiti sono troppi. «Mio figlio ci mette quattro ore», «E no, invece meglio che studino, ci vuole!», «Ma che cavolo dici? Certo, perché hai paura che diventi ignorante come te…» Qualche frase la lasciavi uscire, col permesso dettato dal nervoso. Altre le ricucivi nelle mani, annodavi pugni nel sottobanco accanto a qualche sussidiario rimasto lì.
Adesso pare tutto naufragato al largo di un mare che ci ha presi.
Adesso vedi le cucine, le sale, le credenze in arte povera, di questi docenti che improvvisamente diventano persone, donne, casalinghe. Madri.
Potrei pensare alla resilienza: l’uomo mica si lascia mettere al muro. E, se proprio è un muro, tu puoi giurarci che allora troverà un buco. L’uomo… inventa porte.
Invece sorseggio e guardo gli occhi cavi del figlio, rapiti dal monitor. Mi invento quella che, al di là, si arrabatta nei propri odori domestici, mi invento il viso che non sono andata a curiosare, richiamo tagli di volti dalle poche occasioni in cui ho visto quei prof, in questa prima media. Così breve, tranciata anzitempo. E il pensiero che faccio dimentica la resilienza, dimentica le porte, si ferma al muro: «Tutto, si è fermato».
La prof chiama una madre, chiede della figlia.
Mi sale un brivido, che non è per il caffè ben caldo. Mi sale la fatica di queste donne comuni, l’umanità di chiamare ai cellulari, pur di ricomporre una classe.
Quando quella prescrive «due cose da fare poi», quelli che in tempi remoti e consueti avremmo chiamato «compiti», quelli che aborrivo, sorrido. Ritrovare abitudini ha un vapore che consola. I compiti diventano piccole assegnazioni di normalità, bussole.
Entriamo nelle case di tutti, e intanto siamo fuori dal mondo. Non tocchiamo nessuno, e intanto violiamo strane intimità.
A volte rido: chiunque sia in videoconferenza ha una libreria, alle spalle. Tutti lettori, tutti divoratori di libri.
«Secondo me hanno fatto un lotto di carte da parati con la libreria riprodotta».
Mi immagino questi umani colti alla sprovvista, aggiustare il pc proprio dove albergano quelle due rime di libri. Appiccicare una foto di imponenti scaffali, alle loro spalle.
Sentirsi dignitosi, acculturati, così da poter predicare, dire la loro, fare tutti la nostra parte in questo teatrino dove nessuno sa tutto, e tutti non sanno nulla.
Ma l’umanità, è l’umanità: questa dei genitori che improvvisano Mac in cucina. Questa dei fratellini rimandati a mangiucchiare in salotto. Questa dei figli che prima si lagnano per la didattica online e poi, però, un po’ gli fa bene, li fissa come chiodi un po’ più fermi nella parete glabra della quarantena. Questa delle persone comuni che alzano la voce e poi abbassano le bocche di baci sugli affetti fisici di casa, e sugli schermi di quelli lontani.