LE MADRI CREANO UN SACCO DI RITI. UN SACCO NE CREANO I FIGLI
Grazie per essere tornata.
Hai detto più volte voglio andare a letto, sull’eco di fratelli che mettiamo a dormire prima, per consuetudine, perché si alzano al mattino. Patrick è malaticcio, crollava. Sarah si è presa il suo spazio nel lettone nell’ultima storia del giorno. E io non ero del tutto con lei.
Di solito mi aggrappo a quel tempo che mi riservi con te sul divano, poi. Tuo padre con il pc che gli scalda le gambe nude, la portafinestra aperta sull’abbaiare di quel cane derelitto nel giardino davanti. Le madri creano un sacco di riti. Un sacco ne creano i figli. Sono tracce importanti, sono i sassolini di Pollicino, e poi si torna a casa. Quel desco che ognuno ha dentro il petto, quel focolare che detta i giorni e, un po’, anche chi siamo.
Ci vuole d’essere larghi, morbidi, lasciarsi fare. Così si formano le consuetudini. Così, poi, si perdono, anche.
Tuo padre prova a dirtelo, non vuoi stare ancora qui? Io non ero nemmeno arrivata, stavo ancora baciando Sarah. Perché lui sa, tutte le mie stupide rigidità, quel gesso che mi avviluppa il cuore, che lo diresti allora saldo, la cassaforte sicura. Un cuore così non è più sicuro, è solo più fragile, ha quell’osteoporosi di opporsi sempre ai cambiamenti, alle cadute, fessurandosi un po’.
Lascia stare, gli dico tornando. Dai, ti porto a letto.
Mi sono lavata i denti, mi sono seduta accanto a lui che m’offre un film sulla montagna. Pensando che non guardiamo altro che quel noioso Giulio coniglio da settimane. Che era facile e aveva senso quando ti allattavo, tu remissiva e plasmabile su di me, la televisione era ancora nostra. Potevo avervi entrambe. Almeno stasera ho lei. E mio marito.
E poi arriva quel suono mal miscelato col fischio del vento in quel film. Tu.
Tu di là che non riesci a dormire. Una volta questo stesso monito mi raggelava, voleva dire altre navette infinite, riaddormentarti, riprendere il mio posto sul divano che serba la concavità del mio peso. Fare a turni, adesso vai tu. Cazzo, che palle.
È passata. Come passa tutto. Le madri se lo dimenticano, che le cose passano: ci stanno dentro come in un mare eterno. D’altronde lo sai com’è il mare?
Se ti pianti bene in piedi sulla spiaggia, e guardi l’acqua, e poi spingi gli occhi lontano, ancora più lontano, sempre più lontano… potresti giurarci che tutto il mondo è acqua. La maternità è questo. Ed è una gran cosa. Solo che a volte, nei momenti tosti, sarebbe consigliabile guardare a lato, vedere in una lingua del litorale la possibilità certa di un po’ di terraferma.
Ora se sei sveglia basta così poco. Possiamo anche gloriarci del vezzo di prenderti, riportarti di là.
Così fa tuo padre, mi torna con te in braccio, già sudata, ancora sveglia.
– Non aveva sonno.
Ti prendo come un fuori programma che invece poi è tornarci, nei programmi che abitiamo senza quasi accorgerci. E adesso la nostra sera vale più di mille sere. Hai quei capelli che mi solleticano le braccia di un prurito buono, quegli occhi che senza sapere sanno: che mica è vera quella domanda in cui rido “cosa fai ancora qua?!” Che la risposta è solo Grazie.
Commenti 2
Complimenti, sei riuscita a farmi commuovere 🙂
Author
Benvenuta Cristina, mi fa piacere, grazie… allora spero di sentirti ancora.