Un giorno, un sabato qualsiasi di settembre, hai promesso ai bambini che si andrà in pizzeria. La mamma è sotto le mani di un osteopata che rincorre il suo trigger sottoscapolare (nome in-trigg-ante per definire il “grilletto” muscolare che, attivo, fa impazzire la parte destra della mia testa). Finirà tardi, è in una zona centrale della città, considerata la quasi aperta campagna in cui pascolate di solito. E così, con la scusa di fare prima, papà e i piccoli passeranno a raccattarla, e si andrà al ristorante.
Lei arriva, rilassata, distesa, le hanno detto di fare due passi per sciogliere il tutto dopo il trattamento. Raggiunge il resto della banda in Via Marghera, scansa tacchi improbabili di altre mamme che hanno continuato a fare la donna più di lei, passeggini chic, e ragazzi freschi in balìa di altre stagioni esistenziali.
I bambini si illuminano come fosse la Madonna: “Mammaaaa, sei tornata!”
A volte non basta un miracolo per farli reagire. Altre ti basta esistere.
L’aria è pulita, giovane, felice di sabato, vibrante come quei quattro occhietti blu. Contagiosa. Il fremito dei figli ti arriva addosso, di continuo, sei una battigia di corse scalze, di bagni di sole.
In pizzeria Sarah si mette in ginocchio su una sedia accanto a me. Patrick osserva i quadri rossi della tovaglia: gli è venuta la fossetta sulle guance, quella delle grandi occasioni. Non sta nella pelle. Coca cola per lei, acqua per lui, birra per papà.
“Sì, quando sarai grande, Sarah, la berrai anche tu.”
“Io no – dice il fratello – perché non mi piace.”
Prende una macchinina e segue le strade immaginarie di quei quadrati.
Si ordina, si va in bagno a lavare le mani nell’attesa: il sapone esce da solo, l’acqua esce da sola, quante magie in questo posto!
Siete di nuovo al tavolo, seduti. Le pizze sono arrivate: tagliate quella dei piccoli e sistemate i tovaglioli immensi a mo’ di rete salva-valanghe pinzandoli sotto il piatto e nella maglietta. E quelli iniziano a mangiare, composti, con la forchetta.
Un cameriere vi ha osservati, avete visto qua e là i suoi occhi inseguire i bocconi della pizza e le vostre chiacchiere sulla tovaglia. Si avvicina con garbo, si china un po’ e commenta: “Che bei bambini! Buoni, anche: guarda come stanno bene a tavola, come mangiano bene, come sono felici. Merito dei genitori. Complimenti.”
Tu ringrazi, ti tieni sotto il tavolo quel terzo figlio che, più composto di tutti, manco ancora si vede, per non sembrare platealmente esibizionista. Sorridi e insegui quelle parole che aleggiano come un profumo: guardi il resto della sala, un ragazzo che chiede a lei se fare a metà di una pizza o se mangiare solo verdura (!), un gruppetto di signore al tavolo davanti che si ritrovano, ipotizzi, ogni weekend con qualche storia semplice da raccontare e una serenità morbida sulla pelle. I pedoni al di là della vetrata, la via che vive, il sabato brulicante e vivace. E pensi che hai una famiglia perfetta. Piena di sbagli, molti dei quali tuoi. Piena di urli, e non solo dei figli. Di cose che fanno incazzare. Di imprevisti che sembrano giganti.
Però piena di momenti perfetti.
Perché la famiglia-mulino-bianco esiste: non sempre, non tutto il tempo, ma esiste.
E guai se non fosse, almeno un po’, così.
La famiglia perfetta
Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!