Avevamo un cortile condominiale – quando ero piccola – che per i tempi era d’avanguardia: due altalene, una sorta di girello, due alberi piantati nel cemento. Una stradicciola che avrà fatto non più di trenta metri serpeggiava intorno, rosa come la mia Graziella, la prima bicicletta.
Mio padre mi teneva per la coda della bici e io spingevo sui pedali: era ora di imparare ad andare senza le rotelle. Giravo e rigiravo finché a un certo punto gli chiesi di rallentare.
“Non ti sto tenendo” mi dice.
Mi voltai appena, incredula, mentre continuavo ad andare. Era vero. Avevo imparato.
Ogni sera leggo una storia a Sarah, poi le canto una canzoncina francese, la tengo in braccio e infine sussurro: “Ti voglio bene”.
Da settimane, mesi, forse, leggo una storia a Sarah, le canto la canzone, la tengo in braccio e infine sussurro: “Ti voglio tanto…”
Lei respira il mio bisbiglio vicino, i nasi a sfiorarsi, e io le guardo la piccola bocca schiudersi dietro il ciuccio: “Bene”.
La metto a letto: “Devi dirlo ogni tanto, è una cosa bella, sai? Mi piacerebbe sentirlo.”
Mi tengo le due sillabe che mi dà: “Be-ne”, la saluto e chiudo la porta.
I genitori imparano ad aspettare. Come mio padre che teneva la bici senza forzarmi.
Finché un giorno, a pranzo lei e io come una volta, ride dietro al piatto arancione di spaghetti e pesce: abbiamo cucinato insieme, io butto il sale, lei la pasta, li ha spezzettati uno a uno da crudi, dieci minuti di shanghai in frammenti per la cucina, poi l’acqua del bollitore che inonda quello che resta nella pentola.
È soddisfatta, gode come una matta, di quelle gioie piccole come le sue mani, che vanno dappertutto nella stanza e dappertutto arrivano intorno: “Mamma, mi hai fatto una cosa Buonissima. Buonissimissima.”
“Grazie amore! È molto bello che me lo dici.”
Quindi riattacca: “Mamma, ti voglio bene.”
Faccio il giro del tavolo, le arrivo addosso con impeto eccitato, sotto la finestra di vapore che sembra l’aura di una favola.
“Grazie Sarah, l’hai detto! Grazie!”
La guardo incredula, e mi viene in mente di quel pomeriggio, quando ho imparato ad andare in bicicletta: provi e riprovi, e poi non cambia niente eppure un giorno va, sta su e pedali. Senza rotelle. Senza tuo padre che ti tiene da dietro.