«ENTRA PURE, QUESTA È CASA TUA»
«Mamma, ho dimenticato la mascherina in macchina!»
«Non ti preoccupare, non serve».
È il primo giorno di scuola per Sarah e Isabelle. Perché alla fine, sotto i graffiti di quell’open-day una settimana fa, abbiamo deciso di mandare anche lei.
Adesso corre, non vogliamo essere in ritardo: lei alle undici, sua sorella alle dodici, per questo primo assaggio.
Solo che non è una scuola, della scuola non ha l’edificio, che infatti è una villetta di città. Della scuola non ha le regole, non ha banchi, grembiuli, libri, compiti.
Al piano terra c’è una cucina: è lì, che si troveranno ogni mattina alle nove, per fare colazione prima di cominciare le «lezioni». Intorno, quadri, pannelli con le materie-non materie, pensieri positivi. Il bagno ha una porta colorata, e la fondatrice, Silvia (psicologa per molti anni) non ha affisso alcun cartello minaccioso, ma solo una cartolina che racconta come già nell’Ottocento la scoperta del sapone fosse il migliore strumento per l’igiene. Di sopra, stanze: strumenti musicali, una grande parete tutta lavagna, sedie. Giochi di società: «Certo, perché anche se le lezioni durano solo dalle nove alle tredici dal lunedì al venerdì, c’è la ricreazione in cui giocano». Ho sorriso in quell’open-day, vedi Isabelle, quindi
impari giocando, e poi nella ricreazione… giochi.
Avevo visto queste foto di bambini che leggono seduti sui rami dell’albero in cortile. Esperimenti con la terra, gite e apprendimento sotto la pioggia, coperti da una mantella che viene fornita. Si sta fuori. In questo quadrato su cui affacciano balconi dei condomini circostanti e qualche tortora spia dal cornicione, questo angolo di una realtà parallela.
Dove l’insegnamento è vivere. Dove la vita vera e la scuola si esprimono in un’osmosi che pare fantascienza solo al «sistema» tradizionale. Quale sistema, dico? La vita non è un sistema, la vita è vivere:
le altre mamme sorridono, siamo sparse in questo spazio raccolto all’aperto, sono madri stufe di una realtà irreale, perché
la vera fantascienza è quella della scuola tradizionale, così staccata dalla verità dei bambini e dell’essere umano.
«Un carcere» commenta una donna che mi ascolta attenta dai suoi capelli scurissimi e gli occhi, invece, di un buio estivo.
Qui i maestri non si chiamano maestri. E gli alunni non sono alunni. Tra le materie c’è «Esperimenti». Una volta a settimana c’è un’uscita sul territorio. Le sedi sono due: una urbana, una in campagna alle porte di Milano.
«Quindi scusa, non ho capito: ci sono bambini sia qui, sia nell’altra sede, e uno sceglie dove iscriversi?»
Perfino per me, notoriamente refrattaria all’ordinario (parola che ricorda “ordine”), la verità di questa non-scuola (come giustamente amano chiamarla) è inafferrabile.
«No. Abbiamo due sedi a seconda di cosa stiamo insegnando. Questa ci serve per le esperienze urbane. Quella in campagna per le esperienze nella natura. Abbiamo l’aula paglia, l’aula legno…»
C’è un’altra cosa, che mi aveva sbigottito, ai tempi che incontrammo Silvia per la prima volta: ogni giorno gli insegnanti compilano il registro… dove scrivono «oggi ho imparato…». Gli insegnanti imparano.
Che il pomeriggio i ragazzi saranno a casa e i genitori che lavorano abbiano difficoltà è secondario, lapidaria, lucida e amorevole, la risposta di Silvia: «Questa è una scuola per i bambini. I bambini possono avere un impegno di quattro ore, non di più».
Ogni mese e mezzo, in ogni caso, la scuola si ferma e se non ci sono vacanze da calendario, le crea, lasciando qualche giorno di riposo: «Perché i bambini imparano facendo, e non avete idea di quanto si stancano. Però imparano tantissimo. Ve li ridiamo che sono stanchissimi».
È il paradigma generale, che cambia. Qui non si tratta di fare scuola in un modo nuovo e decisamente più appropriato per la natura dei bambini: qui si tratta di amare la vita. Vuol dire seguire certi ritmi, vuol dire porsi in modo che ogni evento, caratteristica, spunto, sia occasione e non condanna (perfino il Covid),
vuol dire partire da un vassoio di biscotti al mattino e due chiacchiere, e da quelle agganciare un insegnamento. Da lì, fare scuola. Vuol dire crescita personale, Silvia è chiara, riporta questo esempio: «Si insegna a gestire le emozioni anche in modo indiretto, si fa correre una pallina in un tracciato e si impara a non farla uscire. Questo insegna a incanalare».
La magia è cominciata a febbraio, ed era già perfettamente sincronica: avevo giurato che non avrei mandato Isabelle alla scuola di Sarah e Patrick, otto ore seduti, divieto di correre nei corridoi, la ricreazione in classe senza nemmeno poter salutare chi sta in altre classi. Quintali di libri. Rigore. Imposizione. Inzuccherata da maestre dolci e affettuose: ma
l’inappropriatezza del sistema non si cancella con l’affetto. L’affetto deve servire a sradicarlo, quel sistema. Creando.
Con Isabelle, senza altri figli piccoli da curare, sarebbe stato più semplice scegliere per un’alternativa. Ma il tempo stringeva, c’erano le preiscrizioni da fare. Avevamo cercato sul web scuole alternative, ma sono poche e scomode. Avevamo visto una scuola Steineriana, una meravigliosa proposta, scaduta nel momento in cui venivano ribadite le otto ore, che sono e restano troppe, i compiti, che sono e restano inaccettabili dopo un dispendio di tempo tale, e soprattutto quella maestra che alle mie domande rispose: «L’adulto SA cosa è bene per il bambino».
Ah. Perché tu lo sai? Voi lo sapete sempre?
La presunzione chiude. Io scelgo una proposta dove, invece, c’è l’ascolto. L’apertura, il sapere e, anche, il non sapere. E in questo non sapere, io rintraccio qualcosa di intimamente, deliziosamente umano, ma anche vitale.
Perché dal non sapere possiamo accogliere le sfumature incredibili dei bambini e valorizzarle, lasciare che emergano e ci guidino. Dal non sapere nasce la fede.
Il non sapere è essere nella vita, ammettendo che vivere è un’esperienza enormemente più grande di quello che le nostre menti vorrebbero prevedere e organizzare.
Altre scuole nuove si vantano di essere innovative perché insegnano questo e quello, eppure in quella passione che, non lo nego, trasudava, c’era sempre un bisogno adulto, non bambino: il fondatore di una scuola che visitammo disse fiero che da loro un bambino imparava a tenere la mazza da baseball a un anno e mezzo. C’era tutta questa offerta formativa, bambini chiamati a essere geni e superuomini di domani. Ma, vedi, è qui l’errore:
tu non devi fabbricare alunni, ma non devi nemmeno fabbricare superuomini di domani. Occupati dei bambini. Fa che siano il meglio che sono come bambini oggi. L’adulto di domani sboccerà di conseguenza.
A due giorni dalla chiusura delle preiscrizioni avevo un figlio malato (non ricordo più quale). Le sue gambe stese sulle mie, sul divano, mi annoiavo. Va bene, mi dico, apro l’iPad, trovo una scuola per Isabelle. Questa volta il primo risultato, in testa a tutto, era Artademia. Questo il suo nome. Pochi giorni dopo andammo a incontrare Silvia. Anche lei non era convinta della scuola steineriana, era rimasta stupita di un bambino che durante un pranzo chiese se poteva bere. Perché là devi chiedere.
Come ha fatto, Silvia, a inventare Artademia? Semplice. E difficile. Il semplice è il presupposto: se la scuola è per i ragazzi, bisogna chiedere ai ragazzi come la vogliono. Difficile, perché si tratta di cucirla su misura, di formare insegnanti per questo metodo, di inventare tutta una realtà. Lei ha avuto il coraggio di farlo.
Non esistono classi, ma solo macro gruppi: dai sei ai tredici anni, e poi dai quattordici ai ventitré.
Il motivo è, nuovamente, di una semplicità sbaragliante: «Nella vita non si sta separati per età».
Credo che il punto cardinale sia questo, sempre: una scuola per la vita, una scuola che, alla vita, somiglia. Alla vita che vorremmo, non a quella che crediamo di dover subire.
«Ma come fate, se sono mescolati?»
Qualsiasi cosa, si può insegnare a chiunque in modo diverso, appropriato all’età. Allora per esempio, nell’ora della lettura, una bambina di dieci anni leggerà su un albero, e un bimbo di sei avrà un libro illustrato che sfoglierà con un tutor.
All’interno di questi macrogruppi, ci sono microgruppi secondo l’età, seguiti dagli insegnanti.
Finimmo il colloquio e non chiedemmo nemmeno il tempo per pensarci. Era lei, era questa. Ed era adesso. Iscrivemmo Isabelle all’istante.
Ora Sarah esce da questo primo momento, ha un pacchetto in mano. Invece della lista del materiale da acquistare, ha un sacchettino con due quaderni in carta riciclata, una matita, una forma di plastilina, un parapioggia, uno zainetto minimo e vuoto, un sacchettino di tela decorato con altre piccole cose. Sembra uscita da Tiger, o da una festa di compleanno.
«Vai a scuola e esci con un regalo?»
Ha il volto luminoso, fa ancora fatica a credere che qui sia tutto diverso. Mi dirà che una compagna era seduta con le gambe piegate e i talloni sulla sedia. E che ha abbracciato un’insegnante e le ha fatto sentire «dalle sue cuffie!» una canzone che ama. Le dico mi raccomando, tu sei molto ligia e qui è tutto diverso, però mi raccomando il rispetto, sempre.
«Sì, ce l’hanno detto anche loro. Non ci sono regole, ma il rispetto è fondamentale».
Poi è il turno di Isabelle, la lascio su una sedia, le guardo quelle piccole spalle e le orecchie grandi di Minnie sul cappuccio, mentre scendo le scale e vengo via. Nina. Il primo giorno. Nina. Mi si aggrappa un momento di anni: so che questo è un buon posto, mi fido, sono entusiasta. Però: Nina.
Quando torniamo a riprenderla Sarah gironzola, mette il naso nella porta d’ingresso per sentire se hanno finito. Le dicono: «Entra, entra pure, questa è casa tua».
Sorridiamo, abituate a quel «stai ferma, non si esce dalla classe, non si entra, non ci si alza».
Entra pure, questa è casa tua. Metterò questo, come sottotitolo al post.
Isabelle esce e mi corre incontro però non parla. Che c’è, amore? Fa un sorriso pericolante, c’è un’ombra davanti, dove i due incisivi le dondolano, devono essersi insaccati ancora di più.
«Nina! È caduto il dentino!»
Io esulto, lei si chiude, le chiedo quando, dov’è il dente, non parla, mi viene un sospetto, Nina apri la bocca bene, fammi vedere. E il dentino è lì, dietro alla riga dei denti di sotto. Trattenuto chissà da quando.
Non ha voluto dirlo, si vergognava, l’ha tenuto così, in bocca, che nuotava nella saliva. Adesso piange per quella vergogna e il disagio che le è costata. Anche lei con il suo sacchettino di cose. Di quaderni che poi decoreranno per ore nel pomeriggio.
Esiste. Una scuola che smette la scuola.
Backstage
– Isabelle, come la chiami la tua scuola, visto che non è una scuola?
– Casa.
Links utili
Non è facile credere a una realtà così diversa, non solo nella materia ma nello spirito: vi consiglio di visitare il sito web, ma anche la pagina Facebook, per osservare quanta vitalità trasudi anche da esperienze altre da questa realtà non-scolastica.
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