Ha gli occhi furbi, bisbigliano una richiesta, lo vedo, lì dietro il bracciolo del sofà, sbuca anche lei, come i fiori di stoffa. La tempesta ancora non sedata dei capelli del mattino.
Ho visto giusto, Sarah sorride e cinguetta: “Mamma, facciamo una passeggiata solo tu e io, e poi prendiamo il muffin o le piccette (pizzette)?”
Sono stata io, tempo fa, a proporle un’uscita a due: sentivo che ci mancava un momento nostro, che lei scivola nelle sue cose, io sono presa da altro, il tempo ci disfa senza tanti convenevoli. Allora eravamo andate a cercarle i sandaletti per il caldo in arrivo, lei e io, la borsetta a tracolla, la mano nella mano, un tiepido disagio, forse il timore di non riuscire a trovare tutto, in quel giretto per il quartiere. Non tutto quello che desidero di noi, per noi. Lei che vorrei perpetua somiglianza della Sarah che ho dentro. Poi il suo orgoglio fiero mi aveva riempito di gioia. Le chiacchiere come due donnine, i baci inevitabili, le scelte complici, avevano fatto il resto.
Il bello ha preso spazio, ha messo radici, nella sua e mia meraviglia di volerlo ripetere. E così usciamo: sole.
“Voglio essere bellissima” mi ha confidato. Le ho fatto le codine per la prima volta, con quei capelli sottili che ci vogliono quattro giri di elastici mini. La mollettina fucsia, la gonnellina viola. E, logicamente, la borsetta di Hello Kitty, con pettine e fazzolettini rosa.
Ci congediamo con la mia promessa a Patrick che poi toccherà a lui: “E cosa facciamo?” “Qualcosa troveremo.”
Fuori si volta il mondo, come quando sei sola col tuo innamorato: guardano lei, bellissima. Forse annusano il nostro romanticismo. Saltelliamo alla maniera dei bambini, le code ballano e rimbalzano, dondolano le sue piccole braccia, la bocca ha il rossetto pomodoro delle pizzette che abbiamo preso. Il tempo ha smesso di borbottare, ha smesso quel rude vecchio malinconico che a volte mi sbrana.
Tocca a Patrick, è già domenica: taccio, codarda e combattuta. Il fatto è che lui predilige il papà. Che il nostro momento, prima che nascesse Isabelle, erano le terapie. Che ora non abbiamo nemmeno quelle, e avrei bisogno anch’io di lui, ma poi mi chiederò di conquistarlo, e in fondo forse non ci conta così tanto. In fondo in ogni famiglia esistono schieramenti: nella nostra era lui con Mathias e io con Sarah. E chissà dove andrà Isabelle. E chissà se Patrick ci tiene, davvero. Se devo ricordarglielo io, se ho paura che dica di no, che abbia cambiato idea. Che dica di sì, solo per farmi piacere.
Invece spunta come un bucaneve: “Mamma, quando andiamo a fare una passeggiata?”
Ha ricordato. Da ieri. Ha ricordato: in quelle mani che diventano grandi, in quegli occhi che con l’estate spaccano il cielo, ha ricordato nel cuore, non solo nel pensiero. Spazzo via le prime risposte indaffarate, la madre distratta che a volte s’impone: “Sì, adesso vediamo…” La spazza via lui, che insiste con dolcezza squisita, le labbra sottili, gentili e sicure.
Il bar è uno dei più rancidi del quartiere. L’ha scelto lui. Mi ha detto, dapprima, “andiamo al parco giochi dei tunnel”, poi, strada facendo, abbiamo optato per un gelato. “Ma prima camminiamo” decide sicuro. Sceglie ogni strada, andiamo di qui, andiamo di là. Adesso a destra, ora di lì: “Via Cabella”, “Via Bagarotti”… Ogni lapide si prende la sua attenzione, mi legge tutto, senza errori, mentre accetta che gli tenga la mano. Anche se non stiamo attraversando. Che bella quella mano qui dentro, sta già diventando rara. È un tesoro riscoperto, a contrasto col ragazzino che sta diventando.
“Adesso vediamo dove fermarci, cerchiamo un bar.”
“Questo.”
Entra deciso, mi guida dentro.
Una ragazza cinese dietro al banco. Tavoli in formica e sedie con le gambe in metallo. Quattro signori giocano a carte. Più in là due sbadigliano afa tra calici di vino. Sono tutti uomini, da fuori arriva un respiro caldo di fumo e tabacco. Un odore di domenica e partite di calcio. Il grande schermo alle nostre spalle. Noi due seduti, come vecchi amici. Abbiamo parlato di un sacco di cose, per strada, commentato i fiori, imparato cos’è una rima: “Come bambino e tombino, finiscono con le stesse lettere, capisci?”
“Sì – mi ha detto – come… scorpione e…”
E… ho ripiegato su “pallone”.
Ora gli lascio la bocca così, impegnata da un gelato che, sospetto dal suo sguardo, non gli piace nemmeno. Ma l’ha scelto lui, non osa inquinare il nostro momento, la libertà assoluta che gli ho dato. Arriva a metà e lo salvo: “Non ti piace, non è vero?”
La metà rimasta trova fine in un cestino. Noi, invece, siamo solo all’inizio.
Quello stesso orgoglio fiero di Sarah, ora ondeggia anche nei suoi occhi. Ha il guizzo soddisfatto di una magia che è riuscita. Che ci riportiamo a casa. Dove le cose non sono sempre facili o magiche. Ma noi abbiamo imparato il potere di un’uscita esclusiva.