Lo stesso edificio dove portavamo Sarah. L’ambulante di colore fuori dal cancello non c’è, forse non ha ancora aperto la stagione dei cappellini e dei Ray-Ban contraffatti, forse ha spostato la sede del suo piccolo commercio, il suo sorriso bianco incastrato nella terra nera.
Sono sola, verso il centro prenotazioni, guardo la finestra in alto dove Sarah stava trincerata. Guardo dove andavamo da chi non ci ha salvati, scendo nei budelli, mi chiamano presto, quasi subito. Sono gentili, e io lo dico. Lo dico sempre quando qualcosa straborda nel bene o nel male: per la vostra incolumità e sensibilità, meglio nel bene. La gente si stupisce, che faccio come i bambini: i buoni e i cattivi.
– Che rapidità e che garbo, grazie.
Lei è biondo tinta, occhiali bordeaux, mi allunga il foglio per il ritiro della lastra toracica che sono venuta a fare.
– Quanto le devo?
– Niente.
Cazzo, sei gentile ma tanto, proprio…
– Ma come niente?
– Ha l’esenzione.
– Sono così vecchia?
– No, è per la tiroide.
– E la tiroide che c’entra col torace?
– Qui è scritto così.
Insisto un po’, è vero che sono malata cronica alla tiroide e ho l’esenzione, ma serve per accertamenti sulla ghiandola. Ecco il vantaggio di avere un medico non proprio preciso. Però non mi sembra corretto…
– Senta ma… non è giusto, cioè, insomma…
Sto diventando ridicola. Così sorrido, va bene, cosa vuoi, a caval donato non si guarda in bocca. Grazie, arrivederci.
Su non ci sono indicazioni, vagabondo insieme ad altri pazienti dondolanti nella stessa perplessità: la RM, la TC, no, un RX… dov’è la sala d’attesa?
Fermo un infermiere, un qualcosa con uno di quei camici che non ho mai imparato a catalogare, un grande brillantino sul lobo. Mi dice di sedermi lì in fondo, dove il vecchio aspetta leggendo un quotidiano, i manifesti su come estrarre il sangue dalle coronarie sono coperti da qualche altro avviso agli utenti che nessuno ha mai letto, sopra la mia testa la donna incinta che ricorda di non sottoporsi a rx in gravidanza, anche se questa è la sala d’attesa delle risonanze.
Fuori: un prato fitto e alto, trasandato, in un pozzo che adesso il sole azzecca tra le ali del palazzo, le corse dei vetri fino al nono piano, di quelle pareti grigie coi serramenti incandescenti.
Non porto mai da leggere: tanto le mani sudano una nell’altra, si fanno compagnia tra loro, senza il vezzo d’una pagina altrui che i pensieri e l’attesa traverserebbero in ripetizioni cicliche.
– … gnora Capra -: sono già io, il mio nome col titolo mezzo mangiato dal corridoio.
Seguo le venature del linoleum, veloce, la voce è già sparita, s’ingoia in un meandro, spero di non sbagliarmi: eccomi.
Martedì ho il referto degli esami del sangue, venerdì quelli della lastra. Sono troppi giorni: – Ma qualcosa già si vede così, vero?
Lei tergiversa, la coda ricca di boccoli corvini, come una pecora nera, la versione africana di Shaun. Cominciamo a farla, dice.
Mi spoglio, mi schiaccio contro quello strumento, inspiro ai loro comandi, resto ferma e obbediente. Ascolto il loro appello va bene può rivestirsi.
Chiedo. Non costa nulla chiedere. Nemmeno rompere le palle. Ci sono nata apposta. Sono qui per questo. Io chiedo.
– Signora, noi siamo radiologi.
Quindi chissà quanta ne vedete, di questa roba.
– Poi è il medico che…
Faccio una forma grossa, con le mani.
– Sì ma lei intanto ha visto. Se c’è una massa così la vede, no?
– Noi non sappiamo… Diciamo che non possiamo dirlo.
Lo spogliatoio. Ho fatto questa breve chiacchierata con le mie tette timide e nude. Due estranei, lei e il ragazzo col brillante. Adesso torno a cuccia, rientro nei vestiti sicuri. Riallaccio al collo le medagliette coi figli. Magari capita che gli sfugge qualcosa, ho un buon udito e non lo sanno. Magari lasciano il microfono acceso, parlavano con quell’interfono dalla loro guardiola, da quella portineria di comando. Magari ci ripensano. Magari adesso esco, Shaun mi segue, Signora, cerchi di capire, non possiamo prenderci la responsabilità di dare notizie ai pazienti, di farli agitare.
– Mi fa agitare a non darle, invece.
Due minuti dopo siamo in quel bar, ci prendiamo un cornetto di quelli che non prendevo dopo le sedute, guardiamo quanti culi passano sulla mia panchina di allora: “Un torace perfetto, Signora.” Brindiamo.
Invece salgo in macchina, penso a quanti toraci guardano, a quei corpi che anche se loro stanno zitti poi li seguono a casa, a cena, nel bollore di qualche pastasciutta, nell’abitacolo dell’auto, ai semafori.
Commenti 4
Anch’io in questo periodo sto facendo vari controlli e gli ospedali sono davvero luoghi da meditazione, o forse meglio dire, da osservazione. Puoi vedere le emozioni contrastanti delle persone sul loro volto
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Francamente preferisco meditare a casa e osservare in metrò, così, per dire. 😉 Cos’hai, Noemi, è sempre il braccio?
Oh Dio che ansia queste attese! Spero che “un torace perfetto” così non si sia mai visto 🤞🏻.
Io, con mio padre, dovrò andare a fare la tc venerdì 18. Chi più chi meno, attende! In bocca al lupo
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Davvero… Anche voi farete la tac di tuo padre e poi ci sarà da aspettare gli esiti, e ai tecnici di laboratorio non gli scuci una sillaba (ma nel caso della tac in effetti le immagini vanno ricomposte, dicono: non si capisce subito quello che emergerà). In bocca al lupo, un abbraccio.