Sto lavorando a un romanzo. Bisogna che mi ci metta prima di aprire i social, di collegarmi al mondo.
Di solito mi alzo, faccio colazione, mi assicuro che i figli siano bravi. Il telefono è una custodia che dorme, sul banco della cucina. Se compio l’errore di guardare Facebook, se ho lasciato Chrome aperto, i suoi tab come quelle file di lenzuola ai balconi, allora poi non entro più nel testo.
Stamattina è stato difficile. Avevo sognato Patrick vicino al portone del condominio. Non lo varcava, stava lì, guardava oltre il vetro: «Qui c’è il pianeta Terra».
Diceva così. Mi raggrumava in una verità che sembrava di chilometri, di secoli.
In un altro sogno Isabelle piangeva e io ero il suo stesso piangere: piangeva perché non tornerà all’asilo. Il cervello mi ha fatto lo scherzo da due soldi di trasferire su di lei una mia ferita personale. Quando ho aperto gli occhi mi sono tornati il vialetto disassato, il cancelletto, il citofono della materna, quando entravamo e si correva attente a non inciampare. Quando voleva il monopattino e poi dopo le prime beole del parco già mi toccava caricarmelo in spalle.
«Mi fanno male le gambe».
Le fanno sempre male le gambe, suo padre dice che è perché cresce, che anche lui si ricorda notti di sofferenze quand’era ragazzino. Quanto vuoi diventare alta, amore mio? Chissà dove arriveresti, se adesso saltassi su un’altalena. Chissà come fregheresti i piedi a terra mentre ti imploro di salvare le scarpe.
Poi le facevo la coda. In fretta. Togli la giacca, cambia le scarpe. Sbrigati.
Se c’è Daniela oppure Sonia ormai andava bene uguale, non aveva più soggezione di quella voce rocciosa della prima, anche se avrebbe sempre preferito la seconda.
Le avrei messo tutti quei baci a collana, sul collo. Nei mesi sono saliti sempre di più: una volta erano sul petto, sul cuore, le dicevo ti metto i baci qui, così li tieni tutto il giorno, al sicuro. E poi glieli spalmavo. Ma d’inverno i baci si alzano infastiditi dai colli delle maglie, lei mi cerca a fatica dietro la sciarpa.
Poi ho pensato alla sacchetta, rimasta coi vestiti dell’inverno. Al glicine in quel giardino dove li fanno uscire solo se non fa troppo freddo. Hanno paura dei malanni, se no. Rido di un riso amaro, una bocca come quella dei digiuni. Dio che digiuno, quest’anno. E non ne avremo un altro.
Nei mesi più caldi li trovavi tutti ad affollare le ombre degli alberi. Come sciami seduti. Ci mettevo un po’, a identificarla, tra codine simili, magliette fucsia. «Isabelle, c’è la tua mamma». Allora s’alzava, galoppava, mai che venisse piano. Amava stare alla materna, ma avevo ancora quel privilegio di accoglierci in un’impazienza reciproca.
Non ci sarà una festa dei remigini. Non ci sarà un altro anno. Mi torna quel primo giorno d’inserimento, le scodelle di farina gialla.
Tutta la vita ha cambiato dinamiche. All’inizio la quarantena era un’attesa. Adesso è una trasformazione. Una separazione.
La vita sembra così lontana, la memoria intesse un tempo che disorienta. Così veloce, paradossale.
Mi alzo e devo mandare via tutto, tiro le tende, un gesto imperativo, come chi scaccia mosche.
Ho fatto fatica, a mettermi al romanzo. Richiede una piccola violenza, perché le emozioni tirano da un’altra parte.
Poi ti ringrazi per averlo fatto. Un po’. Non troppo. Riaffiori. È l’ora del secondo caffè.
C’è un momento preciso, in cui sai che è tempo di tornare nel vero: salvi il doc., lo salvi di nuovo. Ti annoti due cose. Guardi la luce del sole che è girata, guardi intorno, i disegni delle figlie, la collanina azzurra che ciondola dal cassettino davanti, riprendi il contatto col luogo fisico.
E sale l’acqua della realtà:
per qualche gioco ingenuo una parte di te sperava quasi che tornavi al reale e sarebbe stato diverso. Invece è come svegliarsi di nuovo. Adesso posso aprire i social, posso obbedire a quel torrente emotivo che prima ho scartato. Ma non mi sembra un sollievo.