Dunque c’è questa coppia che incrocio quotidianamente andando o tornando da scuola. Quattro stecche da biliardo per gambe (due di lei, due di lui), qualche passeggino, un numero variabile di infanti: loro, non loro, non è dato saperlo. Lei ha due biglie d’occhi di colore incerto, sporgenti e riversi sul mondo con un languore che le sgorga dal profondo. Lui un piercing alla lingua: lingua che non è difficile apprezzare dacché i due innamorati si scambiano una mole ingente di “convenevoli” mentre le dita intrecciano promesse, i jeans cascano, e le sigarette imperano.
Vederli mi genera sempre un sentimento ambiguo e leggermente spiacevole: fumare e baciarsi sembrano le due occupazioni totalizzanti dinanzi alle quali perfino i pupetti sbiadiscono, e così spingono quel passeggino svogliatamente come si recita la trentesima Ave Maria di un rosario nel mese mariano.
D’altro canto trovare due genitori ancora così impegnati a scambiarsi effusioni, fluttuare nel vapore di un amore quasi adolescenziale e trasognato, mi genera un pizzico d’invidia, ché varcata la soglia della maternità e degli “anta” il tempo – più che la disciplina o la buona educazione – ha ormai debellato le manifestazioni più spinte in pubblico e inevitabilmente asciugato un po’ dell’entusiasmo primordiale.
Eppure qualcosa in comune, oltre alla genitorialità, l’abbiamo: pare che apparteniamo alla stessa specie di genitori-anche-se-ultimi che arrivano a prendere la progenie con infallibile precisione e regolarità all’unisono con il suono intimidatorio della campana (e tra loro). Di solito ci sfioriamo in una falsa noncuranza affacciandoci a spallate alla porta della classe dove riassumono i pochi cristiani rimasti indenni alla presa dei nonni e costretti al fatidico doposcuola. Lei e lui rigorosamente inseparabili, ché ti domandi chi-come-quando qualcuno lavori. E una flemma al limite con lo scazzo plateale. Io vestita solitamente a metà, quella che la fretta tipica del ritardatario consente, e un piccolo senso di colpa perenne per la tempistica apparentemente poco premurosa che mi scarica al varco pattinando tipo ghiaietta sotto i piedi.
È così che oggi, per la prima volta, ho l’occasione di uno scambio verbale con i passerotti della campanella: mentre la mia proverbiale rapidità di vestizione di Sarah mi conduce fuori in men che non si dica, seminando anche i primi, un’imprevista sinergia di cancelli e bidelle mi costringe a un confronto più aspro del previsto: “Chiudete voi il cancello?” avanzo con gentile fermezza precedendoli di pochi passi.
E lì mi arriva, in tutta la sua fragorosa insopportabilità, la più grande dichiarazione di anzianità che io abbia ricevuto in vita mia. Nonché una vera, valida, buona ragione per odiarli, finalmente, un pochettino:
“Sì, Signora.”
Scommetto che a scriverlo l’avrebbero messo maiuscolo.
Che posso dire? È stato pure garbato. Ma Sì, Signora… è vero che avete qualche anno e (molti) chili meno di me, non mi cadono i calzoni, non fumo e non limono dappertutto e sempre: ma siamo colleghi d’asilo! (di ritardi e di campane).