«Ci vediamo dopo il coronavirus».
Siamo scivolati, in questa reclusione, come si scendono le scale: un gradino alla volta. Ma senza mai voltarci, senza mai sapere che indietro, a quella vita normale, non saremmo mai tornati, non a quello che avevamo, così bruscamente, interrotto
Ma siamo ancora qui
Abbiamo fatto tante di quelle lavatrici e cucinato pasti come mai avevamo fatto, in questi mesi.
Abbiamo soccorso bambini rotti in liti tra fratelli e attenzioni insufficienti. Ci siamo sentite in colpa, ci siamo sentite poco.
Abbiamo minacciato di non cucinare più, di sparire, di mollare tutto.
Ma non abbiamo smesso di cucinare, non ce ne siamo andate. Siamo sempre rimaste.
Quarantena: piccole violazioni
Mio padre aveva un sistema per farci salire in montagna.
Certo, ci tirava per mano.
Di tanto in tanto sfoderava una composta di frutta o una zolletta di zucchero: a quei tempi si credeva che gli zuccheri fossero buoni. Sì, anche quelli semplici. Oppure, ce la menavamo banalmente di meno.
Ma il grande trucco era un altro: superati i duemilacinquecento metri di altitudine c’era la parolaccia libera.
Quando tutta questa storia sarà finita
Quando tutta questa storia sarà finita ci sembrerà impossibile non che sia finita, ma che sia cominciata. Ci chiederemo in quale punto l’amore presunto è diventato rapimento, la salute tirannia, l’obbedienza ignoranza, e l’attesa paralisi
Qui e ora
Bisogna accettare che la scomodità che sentiamo è inevitabile. Chi la mette nel fare, chi nel dire, chi nel nulla. Si riesce, in questi giorni, a stare scomodi anche sdraiati su un divano. Scomodi anche in sé stessi. Le battaglie che facciamo fuori rispondono al senso di responsabilità ma anche al bisogno di controllo, di sentire che abbiamo ancora una voce, un potere. Che esistiamo. È umano. Siamo mosche impazzite. È umano anche questo
Quanti giorni mancano
Quando ci hanno detto che mercoledì avrebbero avuto una sessione di gruppo su Zoom, Isabelle non mi ha chiesto «cosa vuol dire?», non ha domandato cosa sia Zoom.
Mi ha chiesto, invece: «Quanti giorni mancano?»
QUANTI. GIORNI. MANCANO.
Lo capiamo, questo?
E poi si è messa a contarli, le dita dritte, in piedi, delle mani.
Gente comune
Vedi queste persone comuni, queste semi autorità che di solito dimentichi avere una vita oltre le aule in cartongesso.
Adesso pare tutto naufragato al largo di un mare che ci ha presi.
Adesso vedi le cucine, le sale, le credenze in arte povera, di questi docenti che improvvisamente diventano persone, donne, casalinghe. Madri.
Da #iorestoacasa a #iononesisto
Io oggi interrogo la quarantena, e certamente dissento dai modi. Tutti. A partire dalla mancanza di informazioni chiare, dall’esclusione in toto dei bambini dai piani di emergenza, da una scuola lasciata a sé stessa, famiglie lasciate a sé stesse, persone con problemi lasciate a sé stesse.
La civiltà di uno stato non si giudica solo dalle vite salvate grazie alla nostra obbedienza cieca per rispondere a un cataclisma e ai tagli fatti sulla sanità.
«Qui c’è il pianeta Terra»
Sto lavorando a un romanzo. Bisogna che mi ci metta prima di aprire i social, di collegarmi al mondo.
Di solito mi alzo, faccio colazione, mi assicuro che i figli siano bravi. Il telefono è una custodia che dorme, sul banco della cucina. Se compio l’errore di guardare Facebook, se ho lasciato Chrome aperto, i suoi tab come quelle file di lenzuola ai balconi, allora poi non entro più nel testo.
Stamattina è stato difficile. Avevo sognato Patrick vicino al portone del condominio. Non lo varcava, stava lì, guardava oltre il vetro: «Qui c’è il pianeta Terra».
E di noi, chi si cura?
Un piano d’emergenza è, per antonomasia, un piano non pianificato: misure senza misura, improvvisate. Ma nel tempo bisognava cominciare a progettare la quarantena. Invece ci si arrangia. Ci autogestiamo, ci diamo consigli fai da te su WhatsApp, creiamo gruppi Facebook, e in quei gruppi chiamiamo psicologi volontari
I bambini cercano di non dare disturbo
Lei si ferma, la bocca le fa un arco che cade, cade il mento, cadono le braccia. Immobile.
– Non riesco…
Sembra rotta.
E in un momento si ferma tutto, anche il bagno, anche il fiato. Allora la prendo, mi scuso con sua sorella, esco un momento.
Siamo sul dondolo in camera mia. Potrei raccontarvi di mille volte che sclero. Potrei dirvi di mille e uno cose che noi mamme, tutte – mica solo io – ci ingegniamo a fare. E anche i papà. Ma oggi voglio dirvi che i bambini soffrono. Chi prima, chi dopo.
Milioni di individui vivono una clausura impegnativa, e nessuno la racconta
«Meglio così che malati, io mi tengo stretti questi giorni». Tutti hanno questo timore reverenziale, che se ti lamenti di stare in casa poi viene la morte e ti bracca. Poi toccherà a te.
Le case di tutti
Ho avuto paura che se lo fosse rotto. Fai pensieri che non fai di solito. Se è rotto non possiamo portarti al pronto soccorso. Lo penso, non lo dico. Guardo: «Meno male, è il mignolo». Quasi a significare che allora anche se ne perdesse l’uso, non sarebbe grave. A che serve, un mignolo? Non avresti mai creduto di scartare un dito, dall’indispensabilità delle cose.
Lasciatemi fare
Il dolore si arrampica come uno scarafaggio. Te ne liberi solo se lo prendi, non se lo ignori. Te ne liberi solo perché sei più grande di lui