VIENI A GUARDARE NEL CASSETTO DELLA LINGERIE MENTRE SONO IN PIENO FLUSSO MESTRUALE E TROVI SOLTANTO MUTANDONI DA NONNA
– Neanche a te piacciono molto gli psicologi?
– Non è che non mi piacciono, è che arrivano troppo grossi.
Rido forte davanti a una banana sbucciata e al mio caffè, in una colazione di coppia, le due damigelle dormono ancora, Patrick è in montagna coi nonni.
In due parole ha messo dentro tutto.
Quando usciamo dalle sedute ripetiamo volenti o nolenti lo stesso schema. Il bar per la merenda mentre io ho già un planetario intero di dubbi, e molti di essi cavalcano rapidi sfuggendo alle redini, e dovrei stare zitta e invece spernacchio qua e là, mi tengo stretta a una borsa che non basta. Loro si prendono un sorbetto al caffè mio marito, un gelato confezionato Sarah. Io niente. Poi vi aspetto fuori, mentre fanno l’ultima tappa alle toilette.
Quella panchina. Lì, davanti alle porte scorrevoli della caffetteria che miagolano, mezza intagliata tra un sole ancora violento e ombre insufficienti al sollievo. Quella panchina ha una gran forza, ha visto familiari di pazienti, padri che entrano a comprare la Settimana Enigmistica per la neomamma, parenti che cercano fiori. Medici in pausa e qualche fumatore sfuggito ai cartelli che intimano di non fumare nemmeno fuori. Fuori da un ospedale, invece – senti a me – le sigarette dovrebbero elargirle gratis. Che senza quella bacchetta magica a volte ti sentiresti perso. E poi si prende le telefonate di tutti. È una panchina ricchissima.
Adesso si culla le mie chiappe. Quel tempo che loro sono ancora dentro, sono dentro anche io, nella mia botola rimasta aperta dall’ultimo colloquio. Faccio su e giù da ripidi gradini, accendo luci e poi le spengo. Vedo e non vedo.
Come mi sento, dici? In difficoltà.
– Non è un sentimento.
Ho paura. Quando vedo che le “escalation” non mollano, io ho paura, suppongo. Non ti convince? Allora arrabbiata.
– Con chi?
Fa’ un po’ con te, ché il modo migliore per chiudermi è rimpallare ogni mia risposta. Che specifichi non c’è risposta giusta o sbagliata.
– Non so, finora non glien’è andata bene nessuna, mi dica lei.
Poi fissa una puntina sulla sua interpretazione: “Disperazione.”
Se vuole. Ché tanto mi pare che è lì che voleva farmi arrivare. Ma disperata io non mi sento. Il guaio è che stare davanti a un terapeuta è come cercare forsennatamente le chiavi quando sei in ritardo: puoi scommetterci che quella giusta è l’ultima del mazzo. Magari la sera, quando finalmente tutta la casa è sbrandata e i bambini soffiano bolle di naso sul cuscino, le emozioni si fanno più chiare, invece lì, con solo un tavolo in mezzo a fare da spartiacque tra le sue interpretazioni e il mio cuore ballerino, mi par di giocare a mosca cieca.
Dice che ha letto il blog, gli ultimi post. Che legge disperazione: che devo dirti? Vieni a guardare nel cassetto della lingerie mentre sono in pieno flusso mestruale e trovi soltanto mutandoni da nonna. Il perizoma o le culotte di pizzo non li hai visti, vero? Se ti fai un giro un po’ più indietro va’ che trovi anche quelli. Te l’assicuro.
È che voi arrivate troppo grossi, ha ragione mio marito. Tipo quando ho detto “smacco” per illustrare come l’intera cosa mi è arrivata imprevista e difficile da accettare. Antonio butta sul tavolo il suo perché interrogativo. Come sarebbe a dire “perché”? Ogni madre in una famiglia serena resterebbe scossa.
Te lo devi ricordare, che hanno un codice, che quando chiedono “perché?” non è che non hanno compreso il tuo sentimento, è solo che vogliono che glielo illustri. Sarebbe più facile sentirsi dire, qua e là, “capisco, immagino che, sento la sua difficoltà”.
Forse allora gli avrei detto più chiaro quello che sento stamattina, addentando la mia banana: ho paura di arrabbiarmi. Perché so di non poterlo fare. Forse sarei rimasta dentro ad aspettare Mathias e Sarah anziché lì fuori su quella panchina mangia segreti.
E forse mi sarei anche mangiata un cornetto.