Forse avrei corso.
Così, per misurare gli anni. Per il sapore di quelle volte che il sabato di spesa ne facevo poca, quanto potevano permettersi due braccia da single. E poi c’erano lunghissime sere e interminabili passi ai bordi del naviglio, di là i palazzi, i tram, le automobili della movida, di qua io e altri coraggiosi, ad addomesticare una solitudine.
Avrei corso in un bisogno sottile di essere io. Di vedermi quando togli le commissioni, gli appuntamenti e i figli. Che faccia ho. Alla prima curva avrei biascicato qualche improperio delusa dalla scarsa resa, mi sarei detta è perché hai avuto tre parti, pensando che invece è colpa dei quaranta che sono passati. Mi sarei spenta alla prima fontana, le mani sui ginocchi. Ma tra una madonna e l’altra avrei sentito quel piccolo bang di adrenalina che riscatta, in una costellazione fugace di finestre e di vie, in un fiato che ha dentro tutta la tua storia.
Invece siamo in macchina, i sacchi riempiono il bagagliaio come un esodo estivo, Isabelle voleva restare seduta al fondo del supermercato, le piace quella panchetta nera, restare lì come sugli spalti, io guardo la gente, loro guardano i figli. Facciamo un gioco, ho detto. Ognuno dice dove vorrebbe essere in questo momento esatto. Patrick comincia tu. Courmayeur. Ma dove, in casa, fuori? Sulla Skyway.
Il mio esploratore di grandi vette. Sarah, tu adesso.
– Courmayeur. In gita.
Isabelle fa eco. Le interessa l’uguaglianza, è nell’età breve dei figli che vogliono somigliarsi. Io scelgo una mongolfiera sulle Alpi, Patrick vorrebbe sapere il punto preciso, sa già troppa geografia.
– A cosa serve questo gioco?
– A sognare – lo ammorbidisco. A quella mongolfiera.
E poi siamo dentro, allacciati, con un piccolo sbavo di cioccolato rubato mentre aggiustavo l’ultimo sacchetto. Lungo un altro braccio di quello stesso naviglio. Che penso se scendere, tornare a quei sabati.
Sarah storta il viso, estrae la sua nausea-ad-hoc, non so credere che le venga a contatto con l’auto appena è il suo turno di occupare il sedile di mezzo.
E così a pochi chilometri da casa scendiamo. Lei e io. Ce la facciamo a piedi.
Isabelle spariva nella vettura piangendo sconfortata. Ma io cammino ha tentato due o tre volte di persuadermi. Le ho dato un bacio dal finestrino abbassato e poi il semaforo verde se l’è portata via.
Camminiamo veloci per Sarah, lente per me. Potevo essere sola. Stare zitta, cantare. Invece ho la sua mano che ogni volta che scappa per un passo non sincronizzato o una nuvola da commentare in cielo, mi piace sentir tornare tra le mie dita.
Ho piccole gare di corsa “da qui a quel palo”, che la portano irrimediabilmente davanti a me, come un’eterna priorità. Un paio di fiori che tanto all’albero gli cadevano lo stesso, e due grandi foglie che lei ha fatto volar via ridendo.
Alla fine arriviamo in fretta. Chiamando forte Mathias perché non ho le chiavi né il telefono. Perché non era previsto di dividerci e né che le mie gambe avessero voglia di strade. Le lascio l’ultima vittoria, mentre raggiunge la porta di casa penso per me è questo, essere madre: capire l’alternativa imprevista. Gonfiare mongolfiere in un supermercato e poi trovare un’altra corsa, dietro a una schiuma di capelli, perdere qualche gara per guardare la vita davanti, i palmi sempre aperti.
Commenti 2
Non conoscevo il tuo Blog, ho letto qualche post e devo dire che mi piace parecchio!! Il tuo modo di scrivere non mi stanca, e ogni articolo sembra il capitolo di un libro!
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Ma che cara sei! Che meraviglioso modo di iniziare la settimana. Un modo proprio fresh, quando vuoi sai dove trovarmi. Grazie davvero :*