COME QUELLE PRIMAVERE DA RAGAZZA, COME QUELLE NOTTI CHE SCALDAVO LO STESSO LETTO DI QUESTE, LA STESSA FINESTRA SOPRA LA NUCA, LE TENDE BIANCHE E ROSSE: SOLA
Così sono partita. Ci ho messo tre giorni a preparare Sarah, dieci minuti il mio bagaglio. Nessuno dei due si è lamentato. Faccio come fanno le coppie usurate, che si separano per un po’, vedono cosa accade. Cosa rimane. Se si amano ancora. No. Ho bisogno della mia centratura, di spaccare quel ghiaccio su cui scivolo malamente da settimane, scendere a prendermi, vedere che sono ancora tutta intera.
Per un attimo ho vacillato, è che non è la stessa cosa prendere la porta quando non s’è rotta una voce, un’attesa. Sarah mi ha guardata dritta negli occhi, le sue battaglie avevano già lasciato le gambe e le scosse, giù fino al parquet, anche Isabelle aveva tirato un grido da gallina sgozzata, Ma io non vojo che vai! e adesso in camera sua la raggiungevo con un sorriso saldo come radici, e Sarah ribatte lucida, nel cuore e negli occhi: “Mi mancherai tanto.” Poi però s’assesta, dentro questa bontà che ci ha presi, lei sulla soglia che abbracciava Patrick in partenza con il nonno, noi quattro a cena in un ristorante, balla e fa girare Isabelle. A mio padre, ormai arrivato in montagna, scrivo “bruttissima foto, bellissima serata.”
È mio fratello, che viene l’indomani. Parcheggia un po’ più in là, Sarah ha chiesto a che ora, e poi fissava quella lancetta che dentro trafiggeva un po’ entrambe.
Certe cose le credi difficili solo perché non le hai mai fatte.
L’ho lasciata libera tante volte, è andata a dormire dai nonni, in montagna, con l’asilo. Non sono mai stata io, quella che saluta con una valigia in mano, lei quella sulla porta. Nemmeno Isabelle. Alla piccola poso qualche bacio sulla testa china, gioca, non vieni fuori a salutarmi?, No, sto giocando. Sarah mi accompagna coi suoi slip rosa, si spinge fin quasi in strada. Sono moltissimi baci, baci di pace nell’afa delle tre. Non so nemmeno contarli e per un attimo penso che non smetterà mai. Ma parto.
M’infilo nell’auto di mio fratello, ci vediamo poco, ha sistemato la sacca, dietro, io sistemo la borsa davanti, le parole. Poi mi abituo, ché la strada e la radio bastano. Mi manca Sarah, mi manca Isabelle.
Te ne vai come una fuggitiva e quella corda tesa tra i cuori ti porta dietro i loro come un rimorchio.
Salgo a Courmayeur, nella casa dove facevo fughe private da ragazza, io e me, a volte un’amica. Salgo dove mi aspettano Patrick, i nonni, la famiglia di mio fratello. Quando arrivo i chilometri hanno già dissuaso la nostalgia, fuori c’è un temporale che sciacqua tutto. Sono forte, si parla, anche di Sarah, spesso di Sarah. Ma sto bene. Ho voglia di non sentirmi chiamare mamma. Sorrido ai bambini di mio fratello, la piccola la prendo in braccio e penso che in ogni caso ai bimbi io non so resistere, scherzo con Jacopo, Patrick se lo spupazza come il fratellino che non ha, provo un’insolita soddisfazione quando a un pianto bebè per la prima volta in nove anni non sono io a dover accorrere. Mangio quello che c’è, non c’è da cucinare, non c’è da cercare: la pace, gli stratagemmi, la resilienza che, già di suo, è una parola che chi l’ha inventata? Sembra una residenza in esilio. Sono libera e pigra, acciuffo una rivista e la mollo, leggo un capitolo di un libro, dormo male per una sinusite insidiosa, ma poi vado in gita coi nonni e mio figlio. Mi ricordo quanto mi piace, dentro si apre una piccola screpolatura, penso che non lo so, se poi potrei rinunciarci per Sarah, che quando la riprendi, la libertà, ti accorgi di quanto ti era pesato perderla. Porto Patrick al Verrand, la mattina dopo siamo di nuovo noi, e poi dopo pranzo, il giro all’Ermitage noi due che “me l’avevi promesso”.
E adesso il tempo cade.
Sono arrivata fin qui senza un’esitazione. Mi fermo a sbuffare per le sue fiacchette ai piedi, perché non vuole andare a piedi nudi alla fontana a riempire una stupida borraccia, e siamo noi, e siamo stati noi, due giorni e due notti, e non mi sono accorta. Me ne accorgo adesso: il tempo cade e io non mi sono fermata.
Come quelle primavere da ragazza, che ero l’unica idiota senza gli sci, come quelle notti che scaldavo lo stesso letto di queste, la stessa finestra sopra la nuca, le tende bianche e rosse: sola.
Mancano poche ore, papi vieni a prenderlo in macchina, sono le ultime che posso, prima di essere di nuovo mescolata a tutto, di nuovo su quel ghiaccio livido che poi il cielo lo fa blu, ma non lo sai se regge, non lo sai mai. Io. Davanti al Bianco che anche a lui il vento gli fa un baffo di polvere e gli sfilaccia i contorni. Accanto alle frecce con tutte le vette, alle betulle e alle sdraio rimaste. Accendo un paio di canzoni sullo smartphone: quelle di questi tempi, dei miei, delle mie rotte interiori.
Due volte Creep. E poi questa:
Is there anything you want from me
My arms, my life, my energy
I don’t know how far I can go…*
Il rifugio è lì davanti e io non voglio tornare. Sono la libertà di quello spolverio di neve, che adesso vince su tutti gli amori. Non voglio tornare a casa. Entro, non ho soldi, mi metto a lavare i piatti, gli chiedo alloggio. Mi figuro i miei giù che si domandano che fine ho fatto. Patrick. Qui stanno già cenando, parlano di cose qualunque, di sciatica e salute sui miei occhi che piangono sotto gli occhiali da sole. L’erba mi scortica e io non so alzarmi. Suono ancora la canzone, la biascico piano. Mi chiedo quale dei due sia il coraggio: se restare qui, raggiungere quel tavolo a propormi come lavapiatti. Oppure tornare giù.
Mentre mi allaccio le scarpe.
* K’s Choice, All https://www.youtube.com/watch?v=seBJiZpOzh8
Commenti 2
Tornare giù. Senza dubbio tornare giù.
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Diciamo che sono coraggiosa di un coraggio che si trova per forza. Ciao cara :*