Siamo di nuovo in macchina. La sorte ci ha stipati tutti dentro. Prima in una scatola come bestie, la cattiva notizia che tuona fuori, come le auto su questo pavé oltre il cortile. Rimbomba all’interno, orecchi fragili vibrano senza posa. Due buchi per respirare. Un telefono che d’improvviso ha mille significati, un sussulto di parole, immagini, in quel suo suono atteso, bramato.
Ai bambini arrivano facce storte, sono seduta in cima al divano, come una che sta per andarsene. Sono seduta ben sprofondata, la schiena calcata giù tra i cuscini, come una che non può fare niente.
Per un attimo penso che vorrei non averli, quei musi intorno, i miei bambini che mi trattengono qui come una zavorra. Che mi costringono, loro malgrado, alla consuetudine dei giochi e dei passi per casa, alle solite espressioni, a occuparmi di loro. Gli dico due parole, cerco una pazienza che stenta: “Devo parlare con papà. Fate silenzio.”
Patrick ride dietro le mani, si ficca due dita tra i denti, il disagio morso e malcelato di quando avverte una serietà e non sa gestirla. Sarah resta impalata, succhia un ciuccio che adesso non mi va di contrastare. La piccola esplora il tappeto bianco, i pezzi di lego rimasti dai fratelli.
La notizia è un odore, ti impregna anche se le dai le spalle. Anche se il giorno scade, ti dici ne ho abbastanza del giorno, poi la notte scalpiti, aspetti la luce. La luce è più facile, pensi. La colazione riporta tutti al loro posto, e intanto ragioni.
Ci andiamo? Andiamo ad Aosta?
Aspetto a dirlo ai figli. Patrick ci ha fatto un mazzo tanto, quando eravamo a Courmayeur, voleva vedere quella città, le sue rovine storiche, o chissà cosa ha imparato da chissà chi e dove. Lui pesca da libri e giornali, poi tira fuori piccoli stupori.
E allora guarda che l’occasione è arrivata. Cinque giorni fa tornavamo a Milano. Ora ci prepariamo, il viaggio al contrario.
Sarah ha confezionato una collana tutta rosa. Perle di legno, sicure, grandi. Grani che forse potrebbero servirgli da rosario, sorrido mentre infila. Solo il filo, elastico, è di un altro colore: un verde teso e inghiottito dalle perle. Sarà abbastanza lunga?
Patrick ha fatto un disegno, ci ha scritto un po’ di cose su, spiegazioni mescolate a numeri.
Mi hanno chiesto come fanno a darglieli, hanno capito che in ospedale ci entrano solo i grandi. Hanno capito che staranno fuori, in giro, la cosa in fondo non gli dispiace.
Sono eccitati per questo viaggio imprevisto. Un po’ della loro fibrillazione schizza fuori da quelle voci che fanno domande: “Devi fare i bagagli?”, mi arriva addosso a spruzzo, vaporizzata.
Abbiamo superato il dosso, stiamo già scendendo, il crinale della paura si addomestica. Per ciò riesco a sentire un fremito: il velcro del dolore si scolla, lascia un po’ di margine al desiderio puro di stringere mio padre.
Hanno capito qualcosa, ma non hanno spazio per la paura, loro. Stringono la tristezza da un lato, la chiudono in rapidi occhi fissi che poi tornano in volo. Lasciano le lacrime ai capricci, a cose più facili. Ai grandi.
Ora preparo la borsa beige con qualcosa da sgranocchiare in macchina, le due bottigliette d’acqua. E siamo pronti a partire: andiamo dal nonno.
Il viaggio al contrario
Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!