ESSERE COSÌ IMPORTANTE PER TE, È PRIVILEGIO E CONDANNA. BIANCO E NERO
Ho guardato quella vecchia su una lastra di vetro e alluminio: sembro io fra dieci anni.
I capelli senza forma, la ruga a sinistra della bocca che è un solco più vivace delle labbra stesse, sottili, schiuse in una smorfia.
Gli occhiali come oblò per due pesci d’occhi spolpati. Le palpebre casacche stanche, vuote.
Forse solo il naso ha retto agli attacchi delle notti insonni. Il suo piercing che mente spavalderia ed estro stava lì in mezzo, cattedrale nel deserto, sogghignava: “Sei tu”.
Sono io quel ritratto bellico. L’ho osservato e ti ho odiata.
Questa notte, per ammazzare il tempo – non potendo ammazzare te – ho pensato ai regali da fare a Natale, a cosa mangiare domani, se pioverà ancora. Ai concorrenti di X-Factor, al mio naso chiuso. Se posso tossire mentre ti ho al seno o se riprenderai a scalciare. Se buttarti di là in salotto, nel box, e lasciarti lì.
Un tempo la notte era un affare di lusso: capitava che mi svegliassi e nell’esile confine tra sonno e veglia il buio mi offriva ispirazione, il pensiero conscio andava e veniva, battigia di suggerimenti dolcissimi. Porgeva una mano, la ritraeva, io cercavo di rubarle qualcosa, uno spunto, un’idea. Spesso nascevano cose belle.
Come tutto, però, la consuetudine ha consumato le promesse, dileguato il gusto: al tuo terzo risveglio in meno di due ore non c’è spazio per l’ennesimo appuntamento con la veglia. Troppo angusto per ogni ispirazione. Tossisco, mi brucia la gola, tu te ne fotti, tu non sai, non sei cattiva eppure lo sembri. Non ho neanche il diritto di stare male.
È in momenti come questo che mi perdo: verrebbe da dire non faccio più niente. Ti faccio da mangiare, e non mangi. Ti vesto, e ti strappi la maglia e sfili le calze. Ti addormento, e ti svegli. Ti conforto, e torni a piangere. Il gesto si svuota, diventa obbligo. Fai quello che ti pare, io non conto più nulla: sono una serva al servizio di un’infante.
Nei film si dice: “Tiri fuori il meglio di me.”
Io osservo le frasi che mi volano dalla testa, suoni rochi prodotti da una controfigura incazzata di tua madre, come non mi appartenessero, e penso che tiri fuori il peggio.
Ci vorrà più di un sorriso, questa volta. Più di quei due dentini che sembrano chicchi di riso. Più di una zampettata per casa sulle ginocchia che spazzano il pavimento.
Più di questo da-da-da di perle lungo il silenzio. Di questo scorrere il divano su e giù, gli occhi ubriachi di una gioia entusiasta che allora stai bene, furfante, allora mi prendi in giro? Più delle mani che afferrano il fazzoletto in cui mi sono appena soffiata il naso, e poi il piccolo asciugamano lì accanto, me lo porgono per giocare a fare cucù. Ci vorrà di più, un po’ di più. Niente di più: giochiamo a sfilarlo, mi scappa un sorriso. T’infili dietro il bracciolo, sghignazzi di qualcosa. Ti salvo dalla presa di corrente lì in basso. Mi sfugge un bacio. Mi sposto in un’altra stanza, mi segui senza tregua: essere così importante per te, è privilegio e condanna. Bianco e nero.
Non ho le forze per altre notti come queste. Ma il giorno dirada la notte, la pelle si distende. E di nuovo, incessantemente, sarai riuscita a riprendermi.
L’amore materno è una contraddizione. Il paradosso cromatico in cui il bianco vince il nero.