Ha avuto le convulsioni.
C’era un capannello di persone intorno, come sempre accade in queste occasioni. Non addosso, non un cerchio di rapaci a fiatare sull’evento più famelici che filantropi: c’erano sì e no una decina di esseri umani, sparpagliati come le nuvole.
“L’ambulanza sta arrivando.”
Una donna anziana si aggrappa alla stampella, vuole “correre” alla Croce Verde di Baggio. Quaranta metri che le costerebbero metà giornata.
“È già andata la ragazza” commenta l’altra dai sacchetti di verdura posati sul marciapiede.
Qualcuno gli allunga una bottiglietta d’acqua, gliene versa un poco sul palmo della mano, altra l’avvicina alle labbra e quello beve, piano, lì in basso dov’è rimasto, seduto al posto dietro al volante, al parabrezza diventati uno schermo di paura, la vettura scaldata dal sole, accostata in quest’anfratto di strada.
Un uomo giovane. Un ragazzo, direi, se ragazza mi chiamo io stessa.
Non il solito vecchio adagiato dall’afa, l’afa è una scusa appiccicosa, in questo fine mese che settembre s’affaccia frettoloso. Non la solita nonna inciampata sul gradino, le anche cedute, morsicate dall’osteoporosi.
Lo vedo dal mio cantuccio, le mani sul manico del passeggino, Patrick accanto. I bambini che per una volta non fanno domande. Ci siamo fermati anche noi. Io, curiosa, stupida. Non come gli altri che si piegano verso di lui, fanno qualcosa. Io guardo. Guardano loro, gli sguardi come palloncini, appesi a quelle bocche buffe, semiaperte, un po’ svanite.
Penso alla parte buona del mondo, tutta raccolta qui al fondo di Via Forze Armate. A quel ragazzo, a chi lo chiama e trova spento. A me che sto e sono di troppo, che se aspetto l’ambulanza è solo per far sentire la sirena ai bambini. Però quegli occhi scavati, stanchi, provati. Spaventati… mi trovano, mi agganciano.
“Povero…” sussurro. “Povero…”
Penso a cosa accadrebbe se stessi male così, di colpo, i bambini accanto a un corpo che impazzisce e che fino a un momento prima era la mamma, ero io. O se quel giovane non fosse riuscito a fermare la macchina, ad accostare. Penso anche che in questo periodo sono sorda, per qualche ragione sconosciuta a me stessa, sfuggente come un pesce a un pescatore a mani nude. Poi però esci dal mercato comunale, col sorriso fiero che una vaschetta di polpo appena acquistato, pronto per pranzo, ti abbia risollevato la giornata, e ti ritrovi ferma in mezzo alla corrente, a cavalcioni di un cuore che batte per un estraneo, con l’empatia sospinta dal silenzio di questi giorni, dopata dagli ormoni. Un nodo in gola, una piccola cravatta a dirti che sei ancora pulsante.
Patrick domanda perché “povero”, mentre ci allontaniamo.
“Perché è sempre brutto quando qualcuno sta male.”
“Quando io sto male?”
L’egocentrismo salvifico dei piccoli: quel loro mondo che esiste sempre, che è anche il solo esistente.
“Se stai male tu ancora di più, perché sei il mio bambino.”
E supero la piazzetta della Croce Verde con quel solito palpito che ogni ambulanza mi ripesca dentro: “Solo. Fa che non sia solo, che qualcuno lo accompagni, lo raggiunga.”
Con l’empatia sospinta dal silenzio di questi giorni
Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!