C’è qualcosa di terribilmente angusto e difficile, nell’insegnare a un bebè a dormire da solo.
Forse quelli allattati artificialmente hanno strade diverse, diversi pensieri le madri: una bottiglia di latte, di camomilla, magari, una stretta in braccio, e poi giù, in culla.
Forse è l’età. I nonni sono notoriamente più inclini a viziare i piccoli che i genitori stessi: fa parte dell’invecchiamento. Eppure io – madre – dal primo figlio a questa, invecchiando, mentre imparo dimentico, e perdo polso. Se di polso si può parlare.
Ho tenuto Patrick nel lettone due settimane, quando è nato. Sarah è rimasta due mesi. Isabelle anche. A sette mesi i primi due sapevano addormentarsi da soli e facevano più o meno la notte. Con Sarah le insegnammo applicando il terribile metodo Estivill.
Non avrei più il fegato.
Isabelle ha otto mesi, dorme a tranche di due ore di notte, di giorno si addormenta al seno.
Alla tv cado a volte su un programma di mamme teenager: i loro neonati dormono senza apparenti problemi. Abituati a essere accuditi dalla giovane madre, dalla nonna, da un’amica. I genitori giovani sono leggeri, semplici. Non come me, che gli anni incurvano, increspano in mille scrupoli. In un sentire vivido che s’impantana al primo pianto.
Bisogna che il piccolo impari a calmarsi da solo: serve a proteggere le nostre notti, ma anche a insegnargli qualcosa che gli varrà a vita. Cerco di ricordarlo. Per qualche ignota ragione, quando Isabelle si sveglia per la terza volta di notte (a volte basta la seconda) all’istinto di protezione e soccorso subentra una rabbia che rende facile ripromettersi: domani le insegno a dormire. Poi viene il mattino, l’ora del suo sonnellino, la casa è vuota, tace il giorno, si raccoglie il silenzio intorno a noi due, e non è solo per praticità, per fretta, ma è per incanto, che mi ritrovo a tenerla al seno. Perché in fondo mi piace. Mi disturba e mi piace.
Oggi però ho voluto provare: canto, la cullo, la metto giù.
Lei si dibatte, strilla con forza, strilla fuori una vita intera di sonni al seno, strilla con le sue mani che mi cercano, le braccia tese, mi trova, si avvinghia al mio braccio con le sue dita paffute, le unghie nella mia pelle. Rimango lì. Non ti lascio piangere e basta, rimango.
Non se ne accorge nemmeno, non sente la mia voce, non avverte il calore, penso che conta quello che conta, non cambierebbe molto se me ne andassi. Rincorro la rabbia che avevo stanotte, ne ho bisogno. Invece mi strazia. Penso alla sua testa minuscola, al cuore che picchia nel piccolo torace, urla tradito perché, per qualche incomprensibile ragione, la mamma sta volta la mette giù senza seno. E non la prende neanche se urla e si dispera. La tiene ferma, una mano sulla pancia, l’altra sul viso, lei se la stringe. Mi sente, allora, eppure non si calma.
È solo una bambina, una bambina che non vuole dormire. Tengo duro.
La prendo in braccio una sola volta, lei è così disperata che non molla, sbatte la testa indietro, sbatte ogni fibra del corpo. La metto giù di nuovo, la saluto ed esco.
Quando sono tornata il pianto era più dimesso. Restavano piccoli sussulti, un motore che si spegne piano. Restava la ghiaia. Qualche lamento stridente, lei arricciata nell’angolo, il sedere per aria. Ho capito che ce l’avevo fatta. Non avrà un buon ricordo di questa esperienza. Forse odierà il lettino più che mai. Nonostante i miei sforzi per addolcire il momento. Ma ce l’ho fatta.
Eppure, accanto a un’esile soddisfazione, ristagna un rigolo amaro, come una traccia di pianto.
C’è qualcosa di davvero angusto, nell’insegnare a un piccolo a dormire da solo. Perché, nonostante le nostre (e sue) necessità, nonostante il desiderio, forse perfino la convinzione apparente, sotto sotto mi chiedo: voglio davvero che lei faccia a meno di me?