Ho pensato che oggi poteva andare meglio. Ho tenuto Sarah a casa tutta la settimana, aveva la scarlattina. È un male brutto, è streptococco, quel batterio che si è preso gola e cuore, una valvola, anni fa, nel mio corpo di bambina.
Un po’ di febbre, brividi, lamenti: i bambini lo fanno vedere subito. Dapprima credi sia un capriccio, poi osservi meglio, ti viene il dubbio.
Mio padre aveva ragione, diceva che dovevo fare il medico. Forse. Forse no, ché già come madre ho una soglia di pazienza e una sensibilità ai limiti del sopportabile. Però c’aveva ragione, perché Sarah non ha mal di gola, la febbre è scesa, eppure l’indomani le guardo la lingua, così, chissà. Sembra scarlatta, c’ha le papille grosse, belle rosse, penso. Solo che poi la giornata si mangia il pensiero. All’ora di pranzo la mia mano le solleva la maglia. Un istinto stupido, nemmeno un gioco. L’esantema è lì, una sorpresa, perché non mi ero presa sul serio per quella lingua. Invece già sapevo. E so. E la pediatra chiede della gola, lo so anch’io, la gola, la gola. No, non le fa male. Però è scarlattina.
Avevo ragione.
E adesso è un casino, perché lo streptococco mi fa paura, perché se mi becca di nuovo il mio cuore è lì, spalancato e buono. Ingenuo, sai, nella carne e nei sensi.
Gli stessi sensi che oggi tengono a casa Sarah. Mi sono presa l’antibiotico anch’io, così potevo starle vicina. “E non fargliele” dice mia madre quando le confesso che le coccole a Sarah non sono il meglio da parte mia, per evitare il contagio.
“Ma è malata! Tutti i malati hanno bisogno di coccole.”
Ho tenuto duro, chiusa in casa come una bambola nella confezione. Lei, io, Isabelle.
Cucinare per niente, un cucchiaio di pasta, lo prende lo molla. Va bene così.
Lasciarla dormire, metterle un cartone al mio pc, accettare l’assedio delle ore, dei luoghi. Sentirmi ultima. Una barretta di cereali al volo, la pipì con Isabelle che mi si arrampica sulle gambe mentre sono seduta sulla tazza. Il mal di pancia di Sarah. Le lotte perché non vuole andare in bagno. Sto con lei, no, l’aspetto fuori. La consolo, la sprono. Isabelle piange ancora. Con Sarah scoppia la lite. Arrivo all’arma bassa delle minacce, la piccola che, mentre urlo, mi piange in braccio, e se la lascio giù piange lo stesso.
Però oggi, oggi che stava bene. Oggi che c’era il sole. Oggi che poteva andare all’asilo… Oggi ho pensato che poteva essere il nostro riscatto. Un giorno nostro, di quelli belli, che s’incollano alla pelle con le loro straordinarie ordinarietà, con il sapore di un venerdì strappato alla scuola, che si bigia, tu e io, io pure, perché ti tengo a casa. E ce ne andremo al parco e il parco sarà vuoto. Giocheremo al domino, al memory, vincerai sempre tu, e farò finta di prendermela. Poi ti vedrò inventare mille cose, alla tua maniera, scivolare per casa su idee che non so inseguire. E amerò che ti dimentichi di me.
Avevo il cuore spalancato, il cuore che lo streptococco l’ho fregato. Aperto e vuoto per Sarah, per un giorno. Invece mi ha fregato.
Ora è là, dai nonni. Dovevano prendere Patrick per altre questioni. Gli ho chiesto se poteva andare anche lei. Volevo una tregua. Lei sorride, poi piange in bagno. Non le basta, intuisco. Voleva il pranzo da loro. “Il pranzo no, non si può fare.” Striscia come una larva su parole non dette, dove stamane saltava la sua voce cavalletta.
Non è riuscita, questa giornata.
La porto dove il nonno l’aspetta. Come una resa. Ritorno a casa con la piccola. In questi giorni non riesce nulla.
Era contenta di andare, ha detto ciao a stento. Ciao, la inseguo. La inseguo. La inseguirò sempre. Mentre attraverso il parco, quel parco che stamane poi non ci ha viste. Il parco vuoto che se ti fermi un attimo si mette a raccontarti tutto, sento la delusione. Sciocca, irriverente come un autunno. A fottere le foglie.
Penso a questo momento piccolo, quando sarò felice che un malanno la renda ancora bambina, quando non il nonno, ma un ragazzetto l’attenderà al cancello. Allora avremo già diluito le ore, i baci, le ninna nanne avran lasciato il letto a sogni taciuti, brevi buonanotte nel corridoio, lanciati come volantini: quand’è che i figli smettono di essere tuoi? Quando vanno a vivere da soli? Più presto, quando diventano maggiorenni, quando cominciano le medie, quando? O ancora prima, il giorno che si staccano dal seno, l’attimo che le gambe per la prima volta li tengono in piedi e non chiedono le tue mani…
Penso a questo momento piccolo, annegato in una moltitudine di ore in cui mi è sembrato di non essere altro che una risposta ai loro bisogni. Che cosa resta, poi? Cosa rimane?