Rosmarino e salvia, un piccolo acero, un’amaca che ha già rovesciato i figli. Viti e grappoli che aspettano il tempo.
Il mare lo indovini posato al fondo, s’inserisce nell’intreccio dei colli, stinto dalla foschia. I villaggi sono giocattoli di cubi pastello, intorno al dito alzato di un campanile. Aggrappati al dentro e fuori di strade tortuose, ieri a salire scherzavamo sul buio così denso, quattro passanti – i soli incrociati – ci dicono è giusto, è di qua per Levà, solo guidate piano, ché magari attraversa qualche cinghiale. E noi ridevamo: giù le teste, bambini, che adesso vi entra da un finestrino ed esce dall’altro.
In qualche modo ci defiliamo, ci sottraiamo alle sfighe di questi tempi, all’alluvione del giorno prima: dalle scale arrivava acqua a secchiate, è stata Isabelle a sentirla, pensava ci fosse l’uomo delle pulizie, mamma voglio vedere. Va bene, andiamo a vedere. C’era l’acqua, le scale sciacquate senza sosta. L’omino però no. Nemmeno i secchi, lo scopettone. Mollo le ricerche per un alloggio, mi attacco al telefono, alle bestemmie, gli occhi spianano i soffitti che si maculano immancabilmente.
Però siamo qui. Poche sacche e mille inezie, tutti quegli effetti personali cui io e i bambini non sappiamo rinunciare, abitudini sottopelle, la lucetta del sonno, la bottiglietta, i farmaci.
Sori l’hanno rifatta. Nella realtà, nei miei ricordi, non ha importanza. Ci arrivavo da ragazza, seguivo l’Aurelia nelle ore che il sole sbaglia colore e i bagnanti sono già dentro qualche vestito: le spalline sulle schiene femmine, bermuda sui maschi e i motorini. Io invece correvo, un marsupio dettava musiche e ritmo, però le sentivo, quelle folate delle auto che volano, mi pigiavo tutta addosso al guardrail. Credevo sempre di arrivare chissà dove e poi scoprivo d’aver fatto due villaggi appena. Adesso c’è questo pugno di bambini in un parco giochi moderno, due ponti pedonali larghi come piazze, la vita di un giovedì sera, ragazzi alle fontane. Ceniamo qui, prima dell’ultima arrampicata su quel boa asfaltato verso la nostra destinazione finale.
Isabelle, ecco il mare.
Madda, ecco il mare.
Siamo noi due, che lo cercavamo, un richiamo che torna come i pensieri nel dormiveglia. Però Patrick s’è fatto mansueto, quando è arrivato dall’oratorio estivo aveva quelle labbra riassunte e piccine, chiudevano un’emozione insistente come quei lacci nell’asola d’un sacco. In macchina era piccole premure, passava a Isabelle le LOL dallo zainetto, a Sarah offriva l’orso di peluche per rilassarsi. Lei comincia a defluire quando il mare s’affaccia ai finestrini, allora apre, si butta fuori con la sua testa chiara che pare un cane, si lascia bere dalla corrente dell’auto che viaggia.
A Levà arriviamo che è buio, ma senza alcun cinghiale. Abbiamo lasciato la macchina sotto la chiesa muta, poi si cammina, i viottoli sono segreti custoditi tra le case, Isabelle ha paura, si infila anche lei come quei sentieri, tutta dentro la mano di sua madre. Un cane abbaia piano, un gatto scappa, lucette segnalano villaggi sospesi, altre dondolano a due spanne dal naso. Siamo abbastanza idioti da non capire, forse perché ci vuole un po’ d’incanto e di stupore: – Avevo pensato agli occhi di un gatto – mi dirà Mathias – solo che erano troppo lontani tra loro.
Devo pensarci un po’, passo veloce dentro ricordi troppo lontani.
– Sono lucciole! Bambini, le lucciole! Sono insetti che volano, come le mosche, solo che fanno luce dal sedere.
Da quanti anni non ne vedevo? Vengono come sorprese, improvvisano la loro piccola festa di lanterne cinesi.
E poi siamo dentro, su e giù, la casa è una torretta su tre piani, a ogni piano un locale, scale senza ringhiere, i bambini scendono addossati al muro, come mi addossavo ai bordi dell’Aurelia.
Qualcuno un giorno mi spiegherà il coraggio di quelle famiglie che un weekend e via, si salta in macchina e si parte. Prepararsi – prima -, e assestarsi – dopo – è sempre qualcosa di laborioso, è il giro dell’oca insieme alla caccia al tesoro. Comunque alla fine dormono, nel sottotetto: Isabelle ha fatto fatica a fare pipì perché nel water c’era una di quelle pastiglie di gel blu igienizzanti, aveva paura che le mordesse le chiappe, che io ridessi le dava solo fastidio. Bacio tre larve bagnate dal sudore, dai loro sonni buoni, in quella stanza viva di altri bambini. Libri, carillon, matite, pupazzi. Sono le figlie che hanno lasciato tacche del loro crescere nel bagno di sotto. Imparerò i loro nomi da quelle, da scatole piene di pastelli. Per un momento ho temuto che le mie non vorranno più uscire. Ma stamattina andiamo. Ancheggiamo per le colline e poi giù, fino al mare. Ché Isabelle ha detto “vi insegno a nuotare!”
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