L’INVIDIA ATTRACCA A OGNI PASSANTE, CHISSÀ COSA PENSANO, MENTRE PROCEDONO, PENSANO COME PENSAVO IO: ALLA PERSONA CON CUI STANNO PARLANDO AL TELEFONO, ALLA CENA DI STASERA, AL COLLEGA CHE LI HA FATTI INCAZZARE, ALLA SPESA. DUE LITRI DI LATTE, POI QUANDO ARRIVO A CASA DEVO RICORDARMI DI SCONGELARE IL MANZO
Nevica. Non me sono nemmeno accorta. Patrick arriva in cucina, è lui a dirlo, allora guardo fuori, foglie arrotondate da questo mistero bianco. Di solito se nevicava li tenevo a casa da scuola: tutti e tre. Si andava fuori, a cercare il silenzio, quella città diventata una nuvola in terra. L’anno scorso Isabelle ha voluto fare l’angelo, solo che la neve non era così spessa: ad ogni bracciata le sue ali diventavano verdi, terra bagnata scoperta in un gioco.
Ma oggi non posso.
Quando non hai più la padronanza delle gambe milioni di cose diventano torture. Imprese epiche.
Si era detto ansia. Si era detto che avevo bisogno di uscire da quest’ovocita di un’esistenza tutta tra casa e famiglia: poco conta che la imbottisci di parole scritte, che l’amore sia sempre il regista. Si era detto.
Da quando assumo quei farmaci per l’asma ho cominciato ad avere crampi alle gambe e ai piedi. In punti difficili da allungare. E poi spasmi, la muscolatura si fa rigida, un legno duro che spaventa. Non puoi più muoverti. Vanno e vengono. Ho aggiunto integratori di sali, ho fatto esami. Non si sa. L’elettromiografia agli arti inferiori è due righe stampate su una prescrizione inevasa: potrei bloccarmi durante la sua esecuzione, restare spasticamente accartocciata su un lettino. Così rimando. Aspetto.
E poi arriva un’altra crisi. Questa è la peggiore. Non smetto mai di sentire le gambe: i muscoli guizzano sotto la pelle, sono muscoli da decubito, sembrano quelli di chi è rimasto allettato per settimane e poi si alza e dopo un passo già si sfiancano, duri e affaticati come avessero fatto una vetta alpina di corsa.
Cedono, ci sono giorni che zoppico, faccio due passi, mi devo fermare, ma il muscolo non si rilassa mai.
L’altro ieri avevo una visita dall’altra parte della città. Un tratto a piedi, un bus, un altro tratto a piedi, un metrò, un’ultima lunga tranche a piedi. La paura. I conteggi. Poteva piovere ma esco senza l’ombrello, mi affido a 3Bmeteo, la borsa è piena di esami e referti, anche quello di un neurologo visto due mesi fa. Solo che da allora le cose stanno peggiorando. Questo invece è un dottore alternativo, guarda la persona nell’insieme, mi sono rotta i coglioni di chi ti guarda a puzzle e poi non ricompone la figura.
Sono arrivata piangendo, levo il cappello di lana, lo appendo, i miei occhi sono ancora poveri anche dinanzi alla segretaria: «Buongiorno». E poi macchinari, cavi, valutazioni.
Ho perso muscolo, i miei muscoli se ne stanno andando, consumati da cosa. Ecco quei quattro chili persi da agosto. Eccoli qui in un apparecchio tentacolare: ho poco osso, poco muscolo, poco di tutto, sono al limite del riquadro penultimo nel suo grafico.
Come corre il mondo. Dio come corre. Lo capisci su quel lungo viale bastardo.
Avrei potuto chiamare un taxi, mi dico se comincio a non fare cose smetto di fare tutto, se ce l’ho fatta venendo ce la faccio tornando. La borsa la giro da una mano all’altra, mi serve per convincermi che quando la sposto sull’altro braccio cammino meglio. Ma il braccio per camminare meglio è sempre “l’altro”. Mi sono imbambolata davanti a vetrine di occhiali di cui non mi fregava un cazzo. Bar con seggiole gocciolanti dalle piogge di prima, punto a vista ogni dove che possa fungermi ad appiglio o seduta se mi prende il blocco ai piedi. Ripeto un mantra nella testa, cerco di accelerare, vedrai che se vai più veloce ti sciogli, ma le gambe non sono mie. Sono due estranee e dopo un passo tornano a imporre la loro zoppia.
Mi supera il ragazzo con la sacca da palestra, mi supera un turista con una valigia a rotelle, mi supera un vecchio. In metrò guardo gli stivali di una ragazza: ne ho di nuovi, ma non li metto mai. Metto le mie scarpe da ginnastica con le solette ortopediche per i miei piedi cavi. Non bastano, ma non posso alzarmi su un tacco otto. Camminare, un gesto così ovvio. L’invidia attracca a ogni passante, chissà cosa pensano, mentre procedono, pensano come pensavo io: alla persona con cui stanno parlando al telefono, alla cena di stasera, al collega che li ha fatti incazzare, alla spesa. Due litri di latte, poi quando arrivo a casa devo ricordarmi di scongelare il manzo.
Come corre il mondo, come correva, là fuori. Segmentavo i pochi metri che mancavano a casa: dai vai fino a quel lampione poi ci fermiamo cinque secondi. Uno due tre quattro cinque. Adesso vai.
Un semaforo verde è una paura, un allarme rapido e devi guadare la strada prima che diventi rosso. Vai, forza, spingi. Zoppico e mi porto sull’altra riva. Meglio lo scivolino o il gradino? Cosa arrischia meno gli spasmi, i cedimenti, o il blocco dei piedi? E quale gamba è più forte, su quale posso poggiare il peso per sollevare l’altra?
Diventano sfide le cose più comuni. L’asilo è lontano, sono duecento metri ogni mattina: remoti. Divisi per zone, come quelle del traffico. L’area stradale, l’area parco, l’attraversamento, l’area marciapiede, l’area viale d’accesso. Andare e tornare, ripetere il tutto tre volte inclusa la scuola di Patrick e Sarah.
Sono un burattino, caricato da una molla di determinazione, quanti giri devo dare per arrivare fino a lì? Dai dillo. Ripeti il mantra, serra i pugni, ripeti il mantra, serra i pugni.
Ieri Patrick aveva calcio in parrocchia. L’ho accompagnato un pezzo, un pezzo e basta, solo fino alla piccola strada da attraversare: «Da qui ce la fai, ce la fai, vero?»
Lui ha acconsentito, il viso basso, gli ho fatto ancora ciao, guardavo il suo berretto bianco sparire tra le auto spente lungo il marciapiede. La sua autonomia. Al posto della mia presenza.
Penso se fosse già estate, penso se fossimo in vacanza: nessuna gita, a malapena un giro in paese. Manca molto. Ma la paura ha i suoi circuiti, ha contato che da quattro mesi non sono migliorata, fa presto a contare quelli che restano. A vedere quello che non posso. La paura conosce la matematica.
La matematica è l’idiozia di perdere. E io, invece, devo vincere.
Commenti 9
Ciao Maddalena,
ho pensato a lungo a cosa potessi scrivere, ma ogni parola era superflua. Però ti mando un grosso abbraccio, e sono felice dell’ultima frase che hai scritto. Anche se non ti conosco personalmente, da quello che scrivi e racconti, hai sicuramente il carattere giusto per poter vincere.
Un grande in bocca a lupo
Cari saluti
Lorenzo
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E’ un disagio grande. Risolveremo. Mi spiace che il blog diventa una pagina sanitaria, ma se mollo l’ancora della scrittura non reggo. Sei tanto caro, Lorenzo. E voi come state dopo la caduta?
Ci stiamo riprendendo. 2010 non ne può più di sentirsi chiedere come sta e come sta il papà. Io mi sto armando di pazienza per la fase di riabilitazione che non sarà breve.
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Immagino. La riabilitazione è una prova di pazienza, hai ragione. In bocca al lupo!
Maddalena ma come mai questi effetti deidei farmaci? Stai già approfondendo con visore ed esami, dunque è inutile che ti dica di farlo. Però ricorda: queste esperienza fortificato, aprono gli occhi e non le scorderai quando i muscoli torneranno a lavorare bene!
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Non so se sono i farmaci, mi limito a osservare che da che li assumo ho problemi sempre peggiori, magari hanno fatto emergere un problema sottostante. Sto facendo già cure (per ora senza effetto) e accertamenti. Intanto per fortuna a giorni va meglio. Mi hai fatta ridere, comunque, dove dici che non dimenticherò l’esperienza, quando i muscoli torneranno a posto: d’istinto ho ribattuto “io invece spero proprio di dimenticare tutto!” 😀 (Ma è perché mi ha proprio fatto paura, tutto sta diventando una sfida e in certi momenti vado in crisi). Grazie Giulia, ti abbraccio. Ps: adesso hai capito perché ho apprezzato molto il tuo post sul ginocchio e le tue considerazioni.
Madda forza che a maggio voglio poterti riabbracciare ❤️
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Claro. Ci sarò, carissima! A costo di strisciare. :p
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