NON SARÀ VALSO A NULLA, USCIRE DA TUTTA QUESTA STORIA COME PRIMA
Sarah si alza, viene a salutarmi, la bacio: «Ciao dormigliona. Dai, vai a fare colazione. Che poi non andiamo da nessuna parte».
Buongiorno.
Le campane suonano un tempo immobile. Questa domenica mattina è sparuti vecchi a prendere uno straccio, un attrezzo, dal mobile in metallo sul balcone. Uno di quelli da esterno, dove la gente lascia ciò che in casa sporca. Una signora dà l’acqua a un vaso appeso, piante che vedo da lontano, macchie verdi. Un’anziana con la blusa blu come il cielo di oggi afferra una scopa, con quella in una mano e l’altra che sventola battezza il silenzio: «Buongiorno!». A qualcuno altrove, a qualche altro balcone o finestra. Che non vedo.
Piccoli spettacoli. Vivi.
Ieri quando ho chiuso le imposte mi sono accorta che il melo ha messo le prime foglie. Forse erano lì da giorni, da quando eravamo in montagna. Sono arrivate senza un fremito, senza avvisare. La vita arriva senza clamore. Però arriva. Ho chiuso la persiana, un ramo indisciplinato resta sempre pinzato, l’ho lasciato fare, ho lasciato che un ritaglio di primavera entrasse in casa.
Fuori il silenzio. Sabato sera è finestre chiuse e televisori accesi. È bambini già a letto, persone comuni che perdono il senso del tempo.
Non c’era niente, a dire che è sabato. Un’ambulanza racconta la sua traiettoria, ogni tanto, in quella sirena che musica amaramente la quiete.
Sulla bacheca di Mathias amici social, contatti virtuali, postano «Fuck the COVID-19». Sono teste incollate e mani che brindano ai boccali di birra. All’idiozia.
Lui dice che non vuole arrabbiarsi. Gli dico che la rabbia non è un reato, anche Gesù si arrabbiò nel tempio.
La rabbia è quello che possiamo, quando crediamo di non potere altro. La rabbia è una forma prepotente d’amore.
Ma non è mai quello che sembra.
È come la pelle del latte quando lo lasci lì. Tu infili un cucchiaio e quella si raggrinza da un lato. Se la togli vedi.
C’è sempre paura, sotto. O un dolore incapace di dirsi.
Ingenui nel tentativo di proteggerci lo lasciamo sotto e spontaneamente si riveste di qualcosa di più solido e denso: serve a sentirsi più forti.
Ma il senso di tutta questa faccenda è smettere.
Ci sono persone che, fino a qui, non hanno fatto altro che imprecare: contro il governo, le misure, l’allarmismo, prima, e l’insufficienza di misure, poi. Riemergono dai pugni fingendo mani aperte, lanciano battute sarcastiche sulla reclusione forzata. Non capiscono che è proprio questo, che va cambiato: fuggire e imprecare. La pelle del latte. La scorza, la corazza.
Non sarà valso a nulla, uscire da tutta questa storia come prima.
Non sarà valso a nulla dire: «Ne sono uscito più forte».
Non stiamo cercando di rinforzare le difese: la sfida è opposta, è lasciarle cadere. Smettere di indurirci. Diventare leggeri e onesti a noi stessi. Vulnerabili. È solo la mente, che fa la guerra. È ciò che non abbiamo ascoltato, accudito, che si ribella.
Come possiamo smettere di ribellarci al prossimo, alle circostanze, se ci ribelliamo alle nostre stesse emozioni?
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