C’è troppo sbalzo termico da un’ora con l’altra, c’è fango, c’è brina, c’è…
Se vado avanti con la lista ne esce quasi una filastrocca: chissà che così non si riesca a far ridere, oltre ai bambini, anche la sottoscritta, per questa prigionia forzata cui sono costretti i pargoli nelle scuole d’infanzia per un numero imprecisato di mesi che rasenta il 90 per cento dell’anno scolastico.
E sì, perché pare che i bambini dell’asilo non escano mai in giardino. Che sia più sicuro tenerli dentro. Per mille, ottime ragioni. Per mille, timorosi genitori.
“L’anno scorso siamo usciti con la neve, li abbiamo cambiati tutti, asciugati, rivestiti, eppure molte mamme si sono lamentate.”
Una maestra di Patrick, solleticata dalla mia domanda “siete usciti, oggi?” si appella ai limiti delle madri.
L’altra, interrogata in sede di riunione coi genitori, puntualizza: “C’è fango, non tutti hanno gli stivali.”
E perché non si rendono obbligatori, al pari di cambio mutandine, asciugamano e sacchetta?
Capisco che non sia il massimo del sollazzo cambiare venticinque bambini per portarli a prendere aria, ma in fondo in ogni lavoro c’è l’incombenza meno simpatica, il task un po’ più ostico, l’attività o il momento di cui faremmo volentieri a meno. D’altronde nulla vieta di scegliere un lavoro più statico tipo la centralinista. Qualche mamma azzarda perfino che “purtroppo” questo giardino è fatto di terra, non di cemento, e quindi s’inzuppa. Ma dai, che fanta-giardino!
Prendo un bel respiro, non voglio inzupparmi anch’io, di polemiche sterili e madri apprensive: “Dico solo che si porta fuori il cane più di quanto si faccia col figlio. Mi sembra un po’ assurdo che un quadrupede abbia più diritti.”
“Sai che è vero?” riconosce la mamma di Angela, “io il cane lo porto fuori tre volte”. E la bambina?
Hanno paura che i figli si ammalino, fa troppo freddo (ora il motivo “fango” è invalidato dal sottozero che lo rende una lastra di brina: magari mi dicono che non possono uscire perché non tutti hanno le scarpe chiodate).
Mi viene in mente quella scena, a Oslo, molti anni fa: passeggini parcheggiati fuori dalle botteghe in pieno inverno. E non erano vuoti: sotto un ammasso informe di coperte e pile, inclusa una che svolazzante alla brezza di meno cinque cadeva dalla capottina, dormivano placidi dei bebè figli di madri un po’ più flessibili, forse anche solo perché la loro razza da generazioni si è abituata ad adattarsi a quel clima ma, soprattutto, ha capito che i veri malanni si prendono nei luoghi affollati, e non nei congelatori.
“Ma lo sapete quanti virus girano in queste classi? Ben più che fuori, all’aria aperta…”
Si volta qualcuna, con gli occhi mi dà ragione, finalmente, altre restano lì con la bocca da pesce, così, semiaperta.
Domando se cambiano mai aria nelle classi, se aprono le finestre. Sì, in generale sì, ogni giorno, logicamente quando i bambini non sono dentro, ma in salone.
Ah, il salone… Meno male che c’è “Il Salone”, il surrogato del giardino per ogni stagione.
E quanto ci vanno? Tre volte a settimana.
Poi vado a prendere i miei figli, questi si animano di gioia, prendono a correre tra i tavoli, e le maestre li invitano all’ordine: non si corre in classe o tra i tavoli.
E certo, hanno anche ragione.
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