Strana specie, i parenti. Coinquilini di cui conosci inutili abitudini e ignori grandi fatti esistenziali.
Gente con cui mai ti fermeresti a parlare, e cui sei costretta da un legame mai scelto. Persone di cui potresti innamorarti, ma che resistono al veto imposto dal sangue. Destinatari di domande infattibili, di silenzi imbarazzanti, di scambi che svelano intimità possibili. O valichi insuperabili.
Ne ho a bizzeffe, io. Li ritrovo, tutti insieme, di tanto in tanto, quando qualcuno di loro raggiunge una tappa degna di celebrazione. Quando uno si sposa. O in occasioni infelici che ci raccolgono intorno a una bara.
Li ritrovo, oggi, venticinque anime mischiate come fiati su un tram, vite diverse, anni diversi, diverse storie, tutti ammucchiati in pochi metri quadri di marmo, per i settant’anni di mia madre.
E penso al sogno che facevo da ragazza: nuda. Nuda in mezzo alla gente.
Solo che ai tempi dell’adolescenza il disagio era consentito, era quasi un dovere, il tatuaggio dell’epoca, il tratto distintivo. Che razza di essere umano saresti se non fossi fuori posto nella vita e nel mondo quando scendi dalle braccia di tua madre per la prima volta e scopri che quel posto bellissimo che vedevi da lassù è un letamaio, oppure uno scrigno di tesori, è vero, ma irraggiungibili?
Sarah si avvinghia alle gambe del papà. Patrick si lascia sedurre dalla focaccia.
Per fortuna io ho la pancia. Io. Una mezza anguria davanti, un mandolino sicuro sotto la tunica verde petrolio acquistata ieri per l’occasione.
“Che bello questo vestito!”, “Allora, il sesso?”, “Di che settimana sei? La morfologica quando la fai?”
Una carezza, chi osa di più. Uno sguardo dolce, per i più timidi.
E così la mia luna mi salva dagli astronauti: tutti i parenti atterrano lì sopra. Che meraviglia.
Però io guardo Sarah che, con la scusa del raffreddore e del casino, di questa condensa di gente che in fondo chi è, si avvinghia al suo papà – e adesso a me – , non risponde a nessuno, non parla, non ride. La libertà viziata e sacra dei bambini.
Chissà se un giorno saprò uscire dalla mia scatola, star bene senza questa pancia o un piccolo dei miei davanti, che mi tiene occupata e assorbe tutte quante le domande. Entrare senza il sorriso obbligato, permettermi la gioia vera, la vera curiosità. Fare le domande che non si fanno mai:
“Cosa ti piace? Cosa ti fa paura? Quanti fidanzati hai avuto? Sei felice? Ma di lavoro, poi, che cosa fai? E di me, in fin dei conti, che diavolo pensi?”
E conoscere questi volti arcinoti, queste statue vuote cui voglio bene come da un pianeta lontano.
Gli imperscrutabili
Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!