«SCUSA» È UNA PAROLA CHE NON RICORDO MI SIA MAI STATA DETTA. «TI CAPISCO», NEMMENO. LA PACE SI FACEVA IN CHIESA, SI STRINGEVA LA MANO E AMEN
Isa sul bordo della stradicciola, si ferma per un bacio come un cinguettio e poi scappa, rapida e lenta. I piedi in fila fanno chicchi danzanti, con le braccia vola.
Quando al cancello ancora aperto scompare nel gomito della via guardo quei leggings rimpiccioliti dall’età. I quattro anni impressi nell’etichetta salgono a metà stinco, c’è tutta una bandiera di pelle al freddo, prima che una calzina la salvi. Ogni tanto, correndo, si ferma, tira già un po’ quella maglia elastica, in un gesto istintivo. Erano i soli non bucati che aveva, li ho ripescati dal cesto della roba sporca.
Sono cresciuta che non si va in giro col buco nei calzoni. Mia madre cuciva e rammendava, se un abito era liso finiva tra gli stracci della polvere, un giorno dormivi sulla federa d’un cuscino, la sera dopo sapeva di trielina, posata sulla lavatrice, ci aveva pulito la suola d’una scarpa da un chewingum maledetto. Sono cresciuta che quando crescevo un paio di braghe nuove, una gonnellina, un vestito, veniva subito a cercarmi. Senza lustro e senza eccessi. Ma non si esce coi vestiti che rimpiangono età passate.
Le ginocchia erano permesse solo in quei kilt che smettevano prima del filato bianco delle calze lunghe.
Sono cresciuta che i capelli bisognava pettinarli, si fa il bagno, si passano, si ripassano ogni mattina. La cena in tavola alle otto, stare seduti composti, non si parla a bocca piena, se ci scannavamo si finiva nei bagni. Una di qua, una di là. In qualche esasperazione di mia madre che ora non sembra così illogica.
Sono cresciuta che c’erano riti, la sera sul letto non leggevamo i soliti libricini, mia madre o papà facevano un capitolo per volta, o un pezzo, di qualche romanzo. Pattini d’argento, Piccole Donne, Incompreso.
Incompreso lo vidi anche alla tv.
Incompreso era il mio preferito. Io lo guardavo ed ero io. Il figlio non visto. Solo che non potevo dirlo. Perché se lo dicevo, la risposta era: «Sei sempre drammatica, fai sempre la vittima».
Sono cresciuta che un pasto pronto c’era sempre, non si sgarrava mai. Le cose per scuola, i regali sotto l’albero. La puntualità. I capi stirati. I fazzoletti di stoffa.
Ma se piangevo piangevo da sola. Arrabbiarsi era quasi vietato, non vedo cosa t’arrabbi a fare, avrebbe detto mia madre. Oppure adesso la smetti o ti metto in castigo. Mio padre avrebbe scollinato in quella sua versione soft che invece infeltrisce uguale: «Non ti arrabbiare, non serve a niente». C’erano sentimenti permessi. Altri: no. Come le posizioni a tavola, così erano le emozioni: dovevano stare composte. Andava bene la gioia, quella con gli amichetti, quella con papà che fa il nano infilando le mani in un paio di mocassini sul tavolo mentre qualcuno mette le mani nelle sue maniche. Le risate di Sbirulino. Andava bene giocare al «Puzzolente» in salotto, coi fratelli, rincorrere il più piccolo, vittima delle sorelle.
C’erano cose che non si facevano, invece. Non si facevano e basta. Come in tutte le case, suppongo. «Scusa» è una parola che non ricordo mi sia mai stata detta. «Ti capisco», nemmeno. La pace si faceva in chiesa, si stringeva la mano e amen. Se c’era una disputa mia madre aveva ragione e io torto: educare è sempre mettere in discussione il figlio, mai sé stessi. Se confidavo qualcosa o chiedevo consiglio, mia madre faceva la controparte, non si schierava dalla mia. Difendermi o proteggermi era qualcosa che non ha mai fatto, forse credeva di temprarmi. Avere paura è un impulso che si può smettere, così credevano: non l’hanno forse detto anche a voi, «non devi avere paura, non c’è proprio da aver paura!»? E tu cosa fai? Smetti. Credi. Ingoi. Come il muco quando non te lo volevi asciugare, ci passi la manica, tiri su di naso. Ti arrangi. Se non sai farlo, se piangi troppo, dopo avrai anche paura d’esser sgridata.
Crescendo impari cosa dire e cosa no. Certe scelte, però, non le puoi mica nascondere. In qualche modo raggruppavo il coraggio che potevo, emettevo la mia decisione. Mia madre s’induriva come le avessi fatto un torto. «Non mi sta bene», «se pensi di aver fatto il tuo dovere», «sei immatura», «dovresti vergognarti». Mio padre era più del tipo «povera piccola devo proteggerti per il tuo bene, adesso vieni che ti spiego la vita». E poi ti perdonava sempre. Ma che tu avevi fatto una cazzata, restava. La vergogna, pure. Non te ne uscivi sentendo che avevi la libertà e il diritto. Te ne venivi via pensando che era un santo a perdonarti nonostante fossi così deludente.
Eri difficile, da sopportare. C’erano parti meravigliose. Risate col papà, la montagna tutti insieme, certi budini alla crema e cioccolato di mia madre. Ma
dovevi stare dentro i parametri convenuti, sebbene in buona fede. In una sorta di patto segreto dove alcuni aspetti non erano, semplicemente, «previsti».
I complimenti. Quelli non li ricordo. Quanto mia madre fosse fiera di me. Che si fidava di me. Che valevo.
I baci. Nemmeno. Abbracci: ai matrimoni e ai funerali. «Ti voglio bene»: solo mio padre, eccezionalmente e mai a voce, in inchiostro o stampa su qualche biglietto in viaggi speciali, nei miei addii temporanei, in lettere in cui ancora si raccomandava dopo le cazzate di cui sopra.
«Tanto la Madda se la cava sempre». Questa riaffiora così, ha solcato tovaglie a scacchi blu e verdi, ha traversato oceani di anni, mi ha costretta a non sbagliare mai. La Madda. Quella brava. Però quella problematica. Quella. Questa. Che amava Incompreso e loro non lo sanno. Che un bacio non lo ricorda e invece ricorda la vergogna e la paura di averne bisogno.
Commenti 3
Se li cresciamo diversi da come siamo cresciuti noi, eviteremo gli sbagli dei nostri genitori o comunque, seppur sempre in buona fede, li ripercorreremo?O ne faremo altri, diversi e forse peggiori o anche minori? Me lo chiedo continuamente, quando mi accorgo che ripercorro i passi dei miei genitori o di dissocio consapevolmente da essi, nell’educare, nel crescere, nello stare con loro. Difficile dirlo. Forse c’è lo dirà solo il tempo o, ancora, non lo sapremo mai perchè loro non lo farannho trasparire.
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Farò errori diversi. Molti e molto diversi. Ma più di questo, quello che importa è restare aperti e lavorare su di sé: sempre. Il genitore non è quello che educa e il figlio quello che va educato. Il genitore è quello che corregge prima di tutto sé stesso, ed è pronto a mettersi in discussione. Se sai metterti in discussione, se non parti dal solo assunto che tu hai ragione e il figlio deve obbedire, se ricordi che, per quanto doloroso o difficile, il figlio è un’anima a sé e non ti deve nulla, allora capirai che la tua delusione o rabbia per certe cose che farà o sceglierà saranno umane ma saranno comunque un problema tuo. Sei tu che devi risolvere la tua delusione e non il figlio. Non esiste rinfacciare cose. Non esiste dirgli “vergognati”, perché chi sei, per farlo vergognare? A quella vergogna, il figlio crederà. Farò altri errori, Giulia. Giuro.
Anche mia madre si è sempre messa in discussione, non è mai stata solo assertiva (a parte quando serviva prendere posizione in modo netto, durante l’adolescenza o in situazioni di pericolo) e io ne ho sempre riconosciuto il merito. Eppure di errori ne ha fatti tanti. Quindi penso che anche così, anche cercando di correggermi oltre che di educare in parte diversamente, ne farò anche io e ne farai anche tu. Però un figlio è anche una persona che vive in società e, come tale, deve comunque tenere conto delle conseguenze delle sue azioni sugli altri, i genitori in primis. Quindi secondo me, capiterà che dovrà vergognarsi e che dovrà riflettere per non deludere. Così come capita al genitore verso il figlio (o dovrebbe capitare). Non siamo isole, siamo intreccio di relazioni e la nostra libertà deve in qualche modo tenerne conto.