VA BENE CHE NON È A SINISTRA, TUTTA QUESTA FERROVIA. È SOLO UN COLPO D’ALA, IL CUORE CHE SCAPPA
Cosa pensavo, in quel momento?
Arrampicare è stato bello, schivavo un senso generale di fiacchezza, alle persone come me ci affiggono il cartello «ansiosa» come la medaglietta ai cani. Così quando entriamo in quell’enorme spazio traforato di teste, moschettoni e appigli, cos’altro puoi dirti? Guardi la tua medaglietta di bronzo (l’argento ai depressi, l’oro ai redenti) e ti ricordi che basta distrarsi. Sono salita su qualche bulder, abbiamo speso tanto che il ragazzetto si è premurato di specificare guardate che fra due ore chiudiamo, e noi non capivamo, cinque poveri pirla con le scarpe da città. E la tessera associativa, e l’ingresso, e paga anche la piccola di cinque anni. E insomma settantacinque. Eccola, la giornata intera che passano i seri: quelli con le sacche e il sacchettino della magnesite.
Sono sul divano, i fiori silenziati da figli che dormono, è venerdì e le ventiquattrore passate da pochi sforzi insoliti su quelle paretine hanno lasciato una vivida memoria muscolare. Dio, che schiappa. Pensare come ci andavo, in Dolomiti. Mi sono fatta tutte le ferrate più famose, me le marcavo sul caschetto oro, coi pennarelli Uniposca. Arrivavo sotto, le asole molli e felici della corda ai lati dell’imbrago, l’impresa conclusa, scodinzolavo tra i tavoli di qualche rifugio allungati sotto al sole. Poche volte sono stata tanto fiera in vita mia. Coi figli, per qualche scrittura. Poche volte, poche altre. Il caschetto lo tenevo in mano come un ventre, le dita aperte a lasciar leggere i nomi più fighi: «Tomaselli», «Tridentina».
È vero, le ferrate non sono la stessa cosa di una parete indoor, e poi sono passate decadi. Si vede anche dalla TV, è venerdì e guardo case. Andare a vivere in campagna. Si scelgono una zona nel Galles, c’è una bella fotografia, è un dossier di Dove, ha le case fighe, itinerari di un certo livello. Lo sai che un’ape vive poche settimane ma quella furba della regina si passa quattro anni sul pianeta? L’ho imparato sempre ieri, sempre in questo venerdì sera. Mentre qualcosa inizia a stringermi il torace. E io penso è la posizione, mi alzo, se ne va.
Mi sono preparata per la notte, da quel divano al cesso sono passi che fingo sicuri solo perché torna lo scintillio di quella medaglietta al collo. Basta concentrarsi, respirare. Il diaframma sta incollato come un adesivo, non sale non scende.
Sta tutto lì cucito intorno a un dolore, una lancia profonda. Adesso mi prende un ballo muscolare, ho tutto il corpo che si scuote in tremiti violenti, fa un po’ ridere, un po’ no.
Mi lavo i denti che lo spazzolino scappa. Penso se mi viene una crisi epilettica, se invece scopriranno che ho il Parkinson. Punto al letto come la grande madre, la terra promessa delle soluzioni. Lui lo sa, ormai: Mathias. Mi ha vista in balia di una samba infelice. Ma è quel dolore a destra dello sterno, tra le costole e poi fin sulla schiena, che pugnala. Ci metto le dita, come quelle infermiere o quei soldati in guerra sulle ferite aperte. Se schiaccio va meglio, ma non posso muovere la cassa, sbuffo respiri minimi, nella stessa danza a scosse che il letto non seda. Il tremore potrebbe essere febbre, la provo, ho quasi trentotto. Il dolore potrebbe essere muscolare: va bene, serve più allenamento. Ho già ingoiato un Voltaren e aspetto due ore per la Tachipirina. Le passo in smorfie da parto. La borsa dell’acqua calda non lenisce, la coccolo come un oggetto transizionale. Sono al Pronto Soccorso: mi vedo. La lettiga, come ci siamo arrivati? Nessuno può tenerci i bambini, quelle tre bocche spente che fanno bolle ignare a un muro da noi. L’ambulanza, mi vedo lì dentro, va bene,
abbiamo tutti una forza sufficiente quando la forza è necessaria.
Stringermi alle sbarre della barella, aspettare. Quella dell’ambulanza era una volontaria gentile, l’ho presa subito dentro in cuore, ci ho fatto un piccolo salotto. Me lo immagino così, il mio arrivo: che qualcuno ti fa bene, ti scalda la solitudine anche se il male ti perfora. Come la borsa dell’acqua calda. Mi lasciano in corridoio. E poi? Che esami mi farebbero? VES, PCR, fegato. RX torace, un ECG. Signora lei non ha un cazzo. In un’altra immagine sono già in stanza, è oggi, la mattina dopo: ecco i figli, mio marito li porta e li scioglie che è come ributtare le trote nel lago. Schizzano veloci. Come stai, mamma?
Sono tutti film rapidi, servono a far passare le due fottute ore per la Tachipirina. Intanto lui ha chiamato, non ha trovato nessuno, sono tutti via per il ponte. Devo davvero andarci da sola in ospedale, devo davvero trovare quella che ci faccio il salotto. Non c’è alternativa, il dolore sale, s’arrampica sul bulder sprovveduto del mio costato. Premo ancora. Domattina, la tenda, hai dormito, hai visto? Dai smettila.
Faccio scroll nel cervello, se scendi sotto le prime impressioni spontanee, gli automatismi della paura, peschi qualche immagine buona. È lì, che devi stare. Mettiti lì,
che il Voltaren intanto smorza un po’ la tua spada, e ti sei arrotolata fetale intorno alla boulle. In qualche istante hai cominciato anche a passare di là della veglia.
Manca poco, mi alzo per fare pipì. Ce la facciamo. Prendo la Tachipirina, ritrovo la mia posizione. Sudo come nemmeno il Cristo nella sindone, ma il corpo torna liscio come lo specchio d’un lago. Va bene che non è a sinistra, tutta questa ferrovia. È solo un colpo d’ala, il cuore che scappa. Mantengo il respiro a filo, se inspiro forte torna la stilettata. Ho smesso le facce da parto, i guaiti tacciono. La casa tace. La notte è pace.
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