LE COSE INUTILI, CON TE, DIVENTANO INDISPENSABILI.
Non ci sono più le nutrie: le avevamo viste con i tuoi fratelli, sembrano castori con la coda da topo. Il pelo intriso d’acqua, lì, lungo la riva dello stagno. Ma ti ho promesso le papere: qualcuna, di quelle, la trovi sempre. E se non la trovi lanci un pezzetto di cracker: non si dovrebbe, ma la meraviglia che t’investe quando le vedi arrivare vale uno strappo al regolamento.
Mi viene in mente quando eri un sonno lontano: la carrozzina, tu lì in basso, coccinelle di un vestito ormai smesso da mesi che paiono secoli.
Aveva il suo bello: un neonato che dorme in una carrozzina è un feto nel grembo. Solo che puoi vederlo. Sentire il respiro, guardarlo mentre stira una gamba sotto la copertina. Mentre un piede sfugge e allarga le dita nella calza storta. Aveva un suo perché: ci sarebbe stato il tempo, poi, per spiegarti le cose. Incontrare le nutrie, ridere davanti alle anatre. Intanto bastavi così. Completamente mia, addosso i pensieri che ci mettevo io, senza interazione. Addosso niente. Un niente enorme, pronto a nutrirsi nei mesi.
Le prime volte che ti ho messa seduta ho tentato la meraviglia di quel laghetto: è così che si fa. Si prova. Non eri pronta, sono rimasta a indicare le papere e tu guardavi giù, in basso. Chissà, forse nemmeno vedevi così lontano.
Si prova. Come a parlarti. Le prime piccole consegne: “Isabelle, porta questo a mamma.”
Un giorno hai portato il libricino che indicavo: queste cose di solito non si dicono. Si racconta il primo passo, la prima parola. Gesti piccoli fanno una piccola scintilla. Poi si spengono nell’abitudine.
Ora non ti sfugge nemmeno un aeroplano. Fai come Patrick, gli occhi in alto al primo rombare, scruti subito all’erta, e localizzi la preda del tuo entusiasmo.
Ci siamo inoltrate nella boscaglia, stasera, sul sentiero sterrato dell’altro giorno: ho preso male una svolta, e ci siamo ritrovate in luoghi mai visti. Buffo, pensavo, dopo sette anni da queste parti so ancora scoprire posti nuovi. Invece ci siamo quasi perse. Sega di una madre.
E tu cantavi, al solito: “Twinkle Twinkle Little Star.” Logicamente con parole tue. Sillabe, piuttosto. Ignara del passo un po’ teso di tua mamma. Alla fine ci siamo ritrovate davanti a un campo, una cava di terra cintata da barriere e invalicabile. Mentre tornavo indietro senza incontrare anima viva (forse solo io sono così brava a sbagliare strada), tu cantavi imperterrita.
Al lago, finalmente, le papere sono arrivate. Come le ho viste ho cominciato a fremere anch’io. Non ti ho fatta scendere solo perché se cadi nell’acqua non so come recuperarti: non sono propriamente una nuotatrice esperta. Ti andava bene lo stesso. Ho lanciato un sassetto, le bestiole hanno creduto fosse cibo, e dietro tutte, qualcuna col sedere per aria, a tuffare il becco sotto. Ridevi come non mai.
Le cose inutili, con te, diventano indispensabili.
Davanti alla bocciofila ti ho messa giù, hai camminato un po’, trotterellavi con la camiciola lilla che svolazzando ti somigliava. Ti sei diretta verso un grosso albero, il grissino saldo nella mano, e l’hai abbracciato.
Ti guardo restando indietro quanto basta a non distrarti: lo sai che abbracciare un albero è abbracciare la vita? Sembravi una poesia in carne e ossa. Anche se, lo ammetto, mi sono chiesta: ma come, la mamma o un albero… non fa differenza?
Non volevi più andartene. Chissà cosa aveva, quell’albero.
Costeggiamo l’ultima sponda del lago: “Isabelle, ora andiamo a casa a fare la…?”
“Pappa.”
Forse non ti è chiara la differenza tra pappa e papà, ma tant’è.
Indichi a terra, vuoi scendere ancora.
Ti metto giù, ti accovacci sulla strada di asfalto sgranato. E con le dita cerchi di afferrare i suoi sassolini incastonati nel cemento.
Ho provato a spiegarti che quelli non si possono lanciare nel lago. Tu resti lì: non hai capito.
Di solito quando tuo padre non capisce, o perfino tuo fratello, m’innervosisco subito. Invece quelle tue dita, la tua insistenza su quella ghiaia ingannevole, mi sono sembrati un atto di altissima intelligenza.
Prendi dal mondo, e poi estrai e riproponi: spesso fuori tempo, magari fuori luogo.
Il mondo, a modo tuo, è un posto più bello.