Mentre il marito è al lavoro, il figlio si diletta, libro alla mano, a copiare le cacche di vari animali e a riprodurle col didò (è migliorato molto nei giochi di simulazione…), e la figlia confeziona (in ritardo) una torta multistrato di compleanno per la sottoscritta, sempre a base di didò – che diverrà, da qui a cinque minuti, irreversibilmente inutilizzabile – , io rimango ancorata alla sedia o a qualsivoglia supporto che mi permetta si stare seduta o, meglio ancora, orizzontale, inerme, sotto il peso schiacciante di una pancia che, non si sa come, sta già superando le mie forze.
“Un po’ di didò qua dentro” la sento dire mentre armeggia. “Paciencia.”
Il “qua dentro” è qualche luogo ignoto alle mie spalle, che non mi curo di verificare. In questo momento non vado molto per il sottile, mi basta evitare che la casa prenda fuoco o che i bambini si accoltellino.
Sono improvvisamente l’alter ego del divano, una bolla di figlia che non smette di scalciare, un’accozzaglia di doloretti artritici, una rivelazione di sciatica che ha solo l’accortezza di cambiare lato da un giorno con l’altro. Un umore che di suo potrebbe librarsi sull’onda di questa fine anno in arrivo coi suoi petardi da due soldi sputati già su un marciapiede alle 11 del mattino da qualche ragazzetto, e del nuovo anno che emerge, carico – se non di promesse – sicuramente di maternità. Ma schiacciato, malauguratamente, come una mosca sul vetro, un colpo destro di Corriere della Sera che ne ha per sempre cancellato le originarie sembianze (della mosca e del quotidiano).
Mi sento come quella pecora, alla fattoria poco lontana da qui. Io di animali non mi intendo, ma quella mattina, coi bambini, capii subito che la bestiola al fondo del povero, zozzo metro quadrato in cui stava coi suoi simili, aveva qualcosa di diverso: “Questa è in travaglio” dico a Mathias. Appartata, con la faccia tirata, per quanto di “faccia” si possa parlare. Di lì a poco, un quarto d’ora, forse meno, ci fecero andare via tutti, mandrie di genitori coi piccoli al seguito, per lasciarla in pace. Avevo visto giusto. E quella partorì.
Si arriva a un punto che è come quando sai che sta per suonare la sveglia: dormicchi, ci provi, ma non puoi abbandonarti al tepore rassicurante del letto. Qualcuno già tira le lenzuola, al fondo, solletica i piedi.
C’è sempre uno spartiacque, nella gestazione, un momento dopo il quale volgi verso il parto, il futuro, il bello ma anche l’ignoto.
Per me questa svolta è adesso, sono queste feste. Mi avvicino al fondale di Truman Show, navigo senza sosta né ritorno: fin qui è stata la meraviglia di una vita parallela, immaginaria, quasi. Perfino perfetta. Il cerchio sicuro dell’attesa. Mi ci ero abituata, conoscevo questa vita, questi giorni, i loro modi, gli acciacchi che vanno e vengono ma non rimangono, le piccole sorprese degli umori in fondo mai davvero sovversivi.
Di là si prepara il vero, la vita cambia di nuovo, diventa carne, diventa suoni. Diventa tocco, sensi, pelle. Pannolini e latte, notti di giorno e giorni di notte, pianti, cure, figli gelosi, tempo che impazza. Emozioni che scoperchiano.
Arrivo, a passi lenti eppure voraci al mio valico, e inizio a ritirarmi. A raccogliermi come quella pecora. Stanca e lenta, appartata.
Davanti a me, anziché orde di famigliole e sguardi di piccoli curiosi, una costellazione sereno-variabile di sentimenti in tumulto. E due coppie di occhi bambini che inseguendo la pasta modellabile reclamano “mammaaaa!”. E domandano: “Oggi nasce la Isabelle?”