«SIGNORA, LEI HA IN CASA UN BAMBINO CHE SPUTA VIRUS».
LA GUERRA È QUESTA: CHE METTE LA PREVENZIONE CONTRO LA VITA
E invece. La mail è nella posta indesiderata. E dove altro poteva esser caduta?
«Mathias! Patrick è positivo!»
Quello che segue è una giostra, prima, e un girone dantesco, poi.
Accorrono come papere al lancio del pane. Tutti, nel mio studiolo, il pc aperto sul referto del tampone. Ridiamo. Patrick sculetta, finge di contagiarci. Non ha paura. Fa bene. Sarah esce dalla stanza, tornerà due minuti dopo con una scatola di Cleenex, la mascherina e un flaconcino di gel igienizzante: «Sono pronta!»
L’attimo del timore, «se lo prendo io…», il momento egoista, è rapido, una saetta che presto si schianta sulla fase tre: perché anche in questo contesto, si va a fasi. La fase 3 è quella delle technicalities. Chi chiamare, cosa succede, cosa facciamo adesso.
Era un semplice mal di gola. Prima di lui: Sarah. Lei un giorno, lui tre o quattro, meno di ventiquattr’ore di una febbricola sotto i 38. Ma i pediatri non si fidano, Isabelle mostrava improvvisa febbre alta senza altri sintomi, e così il 30 ottobre facevamo due ore vane di coda in un drive through. Le impegnative su WhatsApp, nessuno visita nessuno, nessuno respiri. Il fiato che hai buono perde saturazione per l’angoscia che ti mettono. Abbiamo desistito, un medico privato veniva il giorno dopo a fare tampone molecolare a Patrick e Isabelle. I bambini urlano, si dibattono, i genitori li tengono fermi come in un’esecuzione. Fermi per cosa? Chissà che non sia per questo, che poi ridiamo al referto: almeno la tortura si è rivelata necessaria. L’assenza da scuola anche. Il risultato arriva il mercoledì pomeriggio. Bum.
È il luna park degli specchi, comunque ti giri picchi la testa. E l’uscita non c’è, non è mai quella.
A complicare le cose abbiamo pediatri diversi: una per le ragazze, un’altra per Patrick. Lui va isolato. Certo, magari siamo positivi tutti, ma non è più previsto che gli altri siano valutati. È facile che Isabelle sia negativa perché era troppo presto. È facile che Sarah sia o sia stata positiva ma non è stata sottoposta a tampone.
La sera si chiude precaria. Si mangia allo stesso tavolo, Patrick ha avuto i sintomi a partire da undici giorni prima, perché dovrebbe contagiarci proprio adesso che sta bene da una settimana? La sera si chiude coi baci della buonanotte, si stende sul letto con una di quelle frasi che s’imparano da piccoli e poi ci si trascina come un trenino giocattolo, come il pupazzo preferito con un occhio che manca: «Ci penserò domani».
Comincia il giro negli specchi. Cominciano le botte. Pensiamo di farci tutti un test rapido ma non sappiamo se possiamo uscire, essendo scattato l’isolamento fiduciario. Il medico privato che era venuto per i tamponi ha finito i test rapidi. Ho la grazia, in questo labirinto, di un incontro felice: avete mai notato che agli angoli della sfiga c’è sempre un piccolo angelo? Be’ dovreste farlo, perché le voci da seguire non sono quelle della sfiga, ma quelle degli angeli. Perché seguire i piccoli lumini nelle processioni tristi fa sentire meno soli, e fa sentire che la Vita ha ancora, sempre, cura di noi. È la moglie del medico che era venuto, la tempesto di domande, sparo un «cazzo» qua e là, e finiamo a parlare del «Sistema», in senso ampio: trovo un’altra ribelle, raccolgo molte che camminano nella stessa direzione ormai incontrovertibile della mia esistenza. Ed è sempre un raccolto felice.
Dovrò tenerlo stretto, quando al telefono la pediatra delle bambine mi dirà che l’isolamento dura quattordici giorni dal momento che abbiamo isolato il bambino. In capo ai quali lui eseguirà tampone e se negativo e tutti asintomatici, saremo liberi.
«Come faccio a isolare un dodicenne?»
«Eh, Signora. Dorme da solo, gli si dà un bagno suo, gli si lascia il pasto fuori dalla camera, e se esce da lì deve mettere la mascherina».
«Capisce che è una follia, vero? Ha idea della difficoltà pratica e delle ripercussioni psicologiche?»
«Signora, lei ha in casa un bambino che sputa virus».
Sputa. Virus.
Questa è la pediatra gentile. Che avevo osannato sui social.
L’alternativa è che non lo isoliamo, poi scaduta la quarantena lui fa il tampone e, se negativo, l’isolamento fiduciario parte da lì, ossia altri quattordici giorni. Nella perversione della cosa rintraccio una logica per quanto diabolica: se lui non è isolato, potrebbe ancora contagiarci, fino a esito negativo del tampone.
Lui. Sputa. Virus.
Il figlio radioattivo. A questo, si arriva.
«Se no io non le libero le bambine». Sembra un’informazione: suona come una minaccia.
Patrick: il preadolescente in guerra con tutti, il ragazzetto che la voce ancora ce l’ha bianca, le mani sempre là sotto, i telecomandi, le scenate, i «fate schifo», l’invidia per le sorelle che vanno a una non-scuola meravigliosa e lui ancora no, il solo figlio maschio, la vittima di tutto, quello che «la vita è ingiusta, la mia vita fa schifo». Isolalo. Digli che non abbiamo il coraggio di toccarlo. Dì a quelle sue zampe lunghe come lance bianche che non è un castigo, che lo amiamo, ma che deve stare in camera anche per bersi un succo d’arancia. Digli che è un appestato. Fai il vuoto, intorno a lui. Provaci.
Provaci tu. Perché io, preferisco prendermi il covid, ma non isolare mio figlio.
L’effetto di questo clima, della telefonata che invita a questo regime di guerra cieca, è l’esempio palese della guerra sociale che tutti stiamo vivendo:
smettete di dire che si stava peggio in guerra, voi bloggerine da due soldi che la guerra manco l’avete vissuta né l’isolamento da un figlio. La guerra non segrega un dodicenne.
La guerra è questa: che mette la prevenzione contro la Vita.
Prevenzione o Vita.
Perché nel momento in cui entri nel ciclone di disinfettare, isolare, sanificare, quanta gioia di vivere e quante difese immunitarie hai salvato?
Isabelle è irritabile, ha già perso una settimana della sua non-scuola: «Ma io sono già stata a casa!» Sarah ha pianto per quattro anni alle primarie: ha sempre odiato andarci. L’abbiamo tolta da lì e messa alla scuola di Isabelle. Alla notizia di essere confinata non si dispera ma si rabbuia. Ribalta il labbro inferiore una piccola amarezza. Qua e là taglierà il salotto con brevi osservazioni: «E se fanno la gita quando io non ci sono?», «e se mi perdo i marshmallow?». Ho fatto una foto a quel suo volto dispiaciuto: perché quel dispiacere è l’immagine di una scuola che funziona.
Questa mattina ripartono le telefonate. L’ATS, i pediatri, cosa fare. Se invece ci controlliamo tutti, se controllare anche Sarah. Ci interroga, dove dorme il bambino, se l’abbiamo isolato, conferma: la quarantena parte dal momento che isoliamo il contagiato, ogni giorno che Patrick attraversa il salotto senza mascherina il conto praticamente si azzera. «Se non l’avete ancora isolato, i quattordici giorni non potete ancora contarli».
Allora o isolo il figlio, o le sorelle non torneranno a scuola per almeno un mese.
Posso solo sperare nell’errore: il referto ha una clamorosa imprecisione, recita «diuresi 13.22», quando è evidente che nessuna diuresi è stata misurata né ha attinenza col tampone rinofaringeo. Non vedo perché devo aderire a regole ferree con precisione sulla base di un referto impreciso. Ma il laboratorio non risponde. Altre chiamate. Altre chiamate mentre i figli girano per casa e il marito lavora sul tavolo della cucina.
Questa è la vita. Quella degli uomini. Perché quella vera ci guarda nonostante tutto, non sputa soltanto covid ma il sole alle persiane, e mentre noi ci affanniamo… continua a sorridere. Incondizionatamente.
[Photo by OCV PHOTO on Unsplash]
Commenti 2
Che tristezza per tutto questo, Maddalena. Il virus, il sistema, i medici che sembrano aver perso umanità…la burocrazia vuota. Vorrei poterti aiutare!
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Sei molto dolce, carissima. Tanto ormai siam malati tutti. Adesso pare che, tampone o meno, se sintomatici salta il conteggio della quarantena come contatti di un positivo, e si conta invece isolamento fiduciario, ognuno 21 giorni dal proprio esordio sintomi (oppure fai tampone che deve essere negativo, per liberarti). Chi è stato a casa per congiunti positivi e poi a sua volta si ammala, finisce con una reclusione lunghissima: quella della quarantena per contatti cui si somma il proprio isolamento. Non so se basterebbe tampone rapido per uscire, tanto per ora non ce ne sono. Speriamo intanto di stare bene, io sto benone, ma dicono che il virus è subdolo quindi aspetto a essere certa al 100%. Un bacio, grazie.