La sera piove. A me fa piacere, perché di Vita, da qui, ne vedo poca. Grande, maestra di infiniti, però solo a scorci prestati da grandi finestre, da giri di circospezione in giardino.
Così quando il temporale viene a sgridare chi ancora è fuori, viene a picchiare gli ombrelloni sogghignando, e poi i tuoni fanno il loro rock and roll, a me pare che il cielo venga a prendermi: «Va’ che t’aspetto».
Intanto mi alleno. Salgo e scendo le scale. A lungo l’ho fatto come i bambini piccoli, avete presente, no? Un gradino alla volta, due piedi paralleli, oppure obliqui sulla stessa pedata quando lo scalino è poco profondo. E qui sono quasi sempre così. Ma adesso viaggio da adulta: ho preso anni in giorni. Accade.
Aspetto che con la stessa naturalezza, a furia di dimenticare la sola stampella – una volta accanto al camino, una volta in terrazzo – il corpo doni oblio alla mente. Quel sano oblio dei sani.
Gli altri escono ogni tanto, lui li porta fuori come i cani, dai usciamo. Ma forse sarebbe più corretto dire il contrario: il solo che sbava è il padre, mentre ai bambini basta la casa di legno, s’incazzano a ruota che la connessione è scarsa mentre la succhiano tutti giocando a Roblox, e a noi lasciano solo spiccioli. La piccola invece invade gli spazi come è tipico suo: puoi portarla in capo al mondo, ma è sempre lei, che fa il mondo in capo alla casa. Che io debba passare tra maglie affidate al parquet, biglie rovesciate dal passo incauto di altri, o monoliti di bambole su un passeggino, poco conta. Comunque nessuno schioderebbe, Sarah all’invito di andare più vicini al ghiacciaio «comunque con un giro breve, amore», ribatte «il ghiacciaio si vede già da qui. E poi se vuoi il ghiaccio basta aprire il freezer». Noi, certe cose, le obiettavamo non prima dei sedici anni: non avevamo la scaltrezza, la sfacciataggine, ma – diciamolo – nemmeno il genio che loro hanno così presto.
E tu che vuoi fare? Io rido. Rido, guardo lo spettacolo di questo pover’uomo che ormai la moglie gliel’han resa un catenaccio che lui accudisce con amore, e i figli palle sul bowling delle tecnologie. Pupazzi in realtà parallele.
Certo, che ci proviamo. Certo, che li abbiamo cresciuti con altissimi valori, con l’amore per la montagna. Ma provate a competere con Roblox. Forse dovrei affittare un appartamento senza finestre, uno scantinato dal quale venga un’irrefrenabile voglia di evadere. Un bunker dove ovviamente non c’è rete. Allora avrei preso i miei pesci, i buoni propositi. Il mio bottino di figli esploratori.
E poi ci sono cose. Difficili. Le resistenze di Sarah a uscire dal bagno, le battaglie di vecchi sintomi psicosomatici, lo stesso quando si esce, le sue guance gonfie e certe, a metà disegnano una ribellione che cancelli la vulnerabilità. Dio come si china, poi, quando sul cesso implora, quando non le basta quella spavalderia posticcia, e allora arriva tutta la bambina che non vuole più essere. Dice che una gita la farà solo quando la faccio io: «Solo se viene la mamma». Una forma strana di legame, poi rovista tra le stanze con quegli occhi verdi come la maglia che mi ruba. La grande margherita sul seno che manca. Cerca dove posare i suoi video casalinghi, le sue mosse, le sue anche. La sua testa alta e sostenuta da tutta una crescita che se la porta in palmo. Al mattino nemmeno buongiorno. Le impongo un bacio perché non mi basta esistere.