«CI VEDIAMO DOPO IL CORONAVIRUS»
Patrick che balla, mezzo nudo, su quelle gambe da Pinocchio.
È la prima immagine della quarantena.
Il video diventa il simbolo breve, l’emblema temporaneo di una vacanza inattesa. Quando le scuole chiusero, e la paura acchiappava solo i più cagionevoli. Sulla vetrata della materna il cartellone per il carnevale, la festa in maschera, il banchetto di dolci da confezionare: al gruppo WhatsApp ancora non partecipavo, coinvolta contro la mia volontà lasciavo scivolare l’appello «chi può vendere, alle due?»
Si poteva ancora uscire, le saracinesche dei negozi seguivano i loro orari fedeli come metronomi. E l’incertezza era un piccolo scompiglio lontano. Siamo andati in montagna, abbiamo perso i passi in una neve altissima, giocato in quelle stanze di legno e cucinato budini di neve e foglie, per posate ramoscelli e per spezie i germogli, in giardino.
Hanno dichiarato il lockdown.
Di quei giorni ricordo due estremi: la sicurezza e la paura.
La sicurezza di quella casa lontana da tutto, e la paura di certi mattini che le notizie chiassano, e il cuore rimbomba come una cassa vuota. «La gente muore da sola»: lo dico a Mathias, in cucina, fuori gli abeti sono maestosi come sempre.
C’è un punto esatto, un momento che ti coglie e ti arresta: quando una notizia diventa un sentimento, il braccio armato di una ruspa.
Certe sere bisognava trovarci un posto, a quella larva di cuore. Fare un piccolo scavo nella terra, che riparasse dal convoglio del fiato. Allora eseguivo le sequenze apprese di esercizi di TRE (Trauma Release Exercise). Amanda, la mia insegnante, non la vedevo da un po’, ma presto avremmo ripreso i nostri incontri. Mi poso sul lungo tappeto scuro della camera che ho adibito a studio,
do al corpo un suo luogo. Do un luogo a quella larva. Dopo un po’ il fiato si educava o, forse, si arrendeva. La vita è un reflusso che si stanca presto di morire, scendevo dai figli, ridevo con Isabelle.
Il mattino dopo tornavo al romanzo e in qualche modo imparavo: la paura sembra ingoiarti, eppure a parità di condizioni e di realtà, abbiamo una specie di salvavita, dentro, e a un certo punto ti convinci che a te non accadrà. Guardi i figli e sei lì, siete lì, è tutto lì: siete vivi, siete sani. Poche ore più tardi eri già di nuovo la solita te. Quasi insensibile, estranea a quelle notizie aggressive, a troppe bare.
La vera quarantena comincia il 13 marzo, quando siamo tornati a Milano: è già nell’autostrada, nelle aree di sosta frugate solamente dal vento. Da allora, muri. Da lì cominciano le foto, le raccolgo in un folder a PC. È la follia umana di voler ricordare, di sapere che mentre la storia traccia il suo percorso nel mondo, io puntello la mia, la incanalo in una gronda di ricordi piovani. E se adesso mi fermo e penso, è perché
siamo scivolati, in questa reclusione, come si scendono le scale: un gradino alla volta. Ma senza mai voltarci, senza mai sapere che indietro, a quella vita normale, non saremmo mai tornati, non a quello che avevamo, così bruscamente, interrotto.
Adesso si torna fuori, cautamente, da un letargo, e la soglia detta due memorie: quella di tutta la quarantena, e quella della realtà che, entrandoci, abbiamo lasciato, come congelata. Mi volto oggi, venendo via, come ci si volta a chiudere una porta. L’armadietto della materna, la foto di Isabelle nell’erba. Questi anni smessi, il primo giorno che, piccola e nuova in un gruppo fuori casa, giocava con la farina gialla e io mandavo foto dal cellulare. Quegli anni che i mattini erano sempre ossa dure, e le mie carnagioni difficili in una casa sola. I suoi primi amici, i pomeriggi che «vengo alle due», le corse al mattino, le colazioni che le faccio il teatrino con personaggi di carta incollati alle bacchette del giapponese. La tv per un cartone veloce, mentre le infilo la giacca. Gli ultimi tempi che ormai è grande, si mangia, si va, senza il cartone della Peppa. I fratelli a scuola, la calca, la pecora nelle sue mani, che agitiamo come quei capobanda gli ombrellini per direzionare i turisti. Scuotila, scuotila, le dico mentre cerchiamo, nel mondo, quelle sole teste preziose per cui siamo lì. Quanto era grande, il salone, quante cose appese, rimaste ferme… Bocce di piante, disegni, angoli di pupazzi e commesse che devono chiudere, che scalpitano in campanelle insistenti. Tutti quei plichi di fogli, mamma ti ho fatto un disegno. Quei fiori caduti, quando era in cortile, quelle foglie di melagrana, e tutti i pasti di cui mi avrebbe detto: «Oggi ho mangiato solo il pane e la frutta», «ma te l’ho dato, un bacio? Male, che non hai mangiato, io la pago, quella roba». Non sono mai stata arrabbiata, non sono mai riuscita nemmeno a sembrarlo.
Sono salita a salutare queste immagini in pochi, brevi momenti, in questi mesi. Eravamo impegnati nei giorni, in quelle scorribande emotive, ubriache, ciondolanti e imprevedibili come ragazzetti. Siamo tornati tutti quanti ragazzetti. Pensavamo di conoscere noi stessi, la parabola dei pensieri e dei giorni, e invece ci siamo ritrovati in una specie di Grande Fratello.
Tutto era più intenso che là fuori. Non lo diresti. E invece quando chiudi la vita e le togli tutto, c’è un altro tutto, grande, che in casa sbatte contro i muri. Però, anche, ti alimenta.
Le bimbe hanno fatto Noemi, quella signora creata dalla panca della cucina, le scarpe, la felpa, i capelli di carta e poi di lana. Tane e campeggi in camera e in salotto, scuole fasulle in giardino, giochi di fango, pizze di terra. Capanni con le frasche del Red Robin e una piscina nei giorni più caldi.
La nostalgia non è voglia di tornare indietro, eppure è quella matrice diversa del cuore, con la quale, per un lungo tempo, abbiamo vissuto: è solo il tè caldo di certe dolcezze.
Pare quasi che, a certe profondità insondabili dell’esistenza, il cuore non sappia il bene e il male, il positivo e il negativo. Sappia la forza. E di quella voglia serbare il ricordo.
Di quei mattini che una buona notizia faceva festa. Di Isabelle nascosta sotto il mio scrittoio ferita e sola, che mi aspetta. La panca rovesciata ad asse d’equilibrio, le lezioni dei professori a pc. Le fatiche, l’abisso di quelle strade nude e di uomini distanziati fuori dai supermercati nelle foto di Mathias. La vestizione, maschera, guanti, lista della spesa. E poi il rito attento del ritorno: lascia i sacchi fuori, non tocca le maniglie, ripone solo i surgelati e i freschi in piani liberati apposta, «Bambini non toccate». Ha una sacralità quell’evento ogni sette, dieci giorni, intrigante tra timori e premi, perché quel giorno si tornava a riempire la dispensa. I disegni di Isabelle passati sotto la porta del mio studio, i nostri momenti sul dondolo, che ho istituito come Chiamate d’emergenza. Quando la vedo in sovraccarico emotivo, quando ha un crollo dopo l’altro e le serve fermarsi: «Chiamata d’emergenza?» Così si va nella mia stanza, sotto il dondolo una fila di libri, la prendo in braccio, facciamo due parole, ne leggiamo uno. E per un po’ il mondo cade via. È il nostro «angolo del conforto». L’ingegno. Dei figli. Il mio.
L’inesauribile creatività dell’essere umano. Non si può dimenticarlo, questo. Non si può non imparare che nelle rigidità siamo noi, a diventare flessuosi.
Le mie meditazioni, la sera. Le cause sociali. I diritti dei bambini. Le lotte sui social. Questo estremo dentro fuori, questo cuore che lavora doppio, tra un’intimità difficile e un esterno doveroso. Lo scambio di energie, in questi polsi ripidi sulla tastiera.
L’inseguimento delle notizie. Il cordoglio e il dolore che poi sfumano. Si smette di parlare dei deceduti, si viaggia al ritmo comandato dai media. Adesso si sta sulla ripresa economica. Sulle scuole che devono organizzarsi. Sui parchi, sulle prime, sudate concessioni alla libertà dimenticata.
Quasi non lo ricordiamo più, com’era vivere senza. Senza queste notizie, queste emozioni, queste battaglie.
È una soglia vertiginosa. È la soglia in cui il piede lo sente, tutto quel carico emotivo troppo rapido. È un passo eppure un dirupo.
Per settimane i bambini della materna hanno salutato in quei video sulla chat: «Ciao (a)mici, ci vediamo presto». Anche le maestre facevano uguale. Dopo un po’ non hanno più detto niente, solo «alla prossima». Adesso la frase coniata dalla zecca dei cuori è: «Ci vediamo dopo il coronavirus».
Coronavirus non è più un virus. È una condizione, un’epoca. È una soglia continua.
Dove imparare, forse, quell’incertezza che vorremmo domare.
[Photo by Filip Kominik on Unsplash]
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