Centottanta gradi, cinquanta minuti. Quattrocento grammi di zucca, duecento di farina, centocinquanta di zucchero…
Non sono diventata improvvisamente una food-blogger, una mamma modello che la domenica sforna dolci in continuazione, sperimenta ricette, le posta con orgoglio e una foto luccicante. Sono solo una mamma con un mappamondo attaccato davanti, un marito e due bambini, che oggi avrebbe volentieri scritto di cose felici, di befane generose, di feste allegre attorno ai vapori del forno. E invece si ritira nel piccolo studio, infeltrita da un giorno di quelli che non sono riusciti.
Accade anche questo. Ciambelle senza buco. Torte senza famiglia, per essere precisi.
Pioveva, fuori. La zucca invecchiava. Mi sono allungata al super qui accanto, la blusa del pigiama ancora sotto la giacca a vento (una pecora su un fondo rigato di blu: vistosamente pigiama!), un paio di braghe di felpa. Per recuperare i dolci con cui riempire le calze stanotte. Appenderle alla libreria in salotto: quella rossa e quella verde, grandi uguali, senza ingiustizie. E due ingredienti che mi serviranno per la torta di recupero con cui salvare la zucca dalla raccolta differenziata.
Sarah mi aiuta, sulle prime, poi è assorbita dal papà che monta una sedia nuova. Patrick chissà, insegue ancora il pc, ha smesso le macchine da che abbiamo infilato il loro cesto sotto il letto. Gli è passata la vena.
Io impasto. Come nei libri, nei film, nelle case degli altri, forse. Come nella mia testa: la torta sarà bella e deliziosa, gli occhi salteranno per la cucina in attesa che sia cotta, ci azzufferemo per mangiarla tutta, le mani unte, le bocche mute. Sorrisi dilaganti di denti marci di cioccolata.
Inforno e aspetto. I bambini saranno curiosi, si affacceranno con cautela a quel vetro caldo, obbedienti alle mie raccomandazioni. E verseranno impazienza per la casa. Finché suonerà il forno: il campanello della nostra piccola festa.
Aspetto ancora che funzioni, aspetto sempre: per qualche strana, patologica ragione, ai miei figli – e a Patrick in particolare -, non piace alcun dolce casalingo. Va bene il Mulino Bianco. Ogni porcata industriale. Ogni cosa che abbia un incarto. È l’incarto, allora, io l’incarto non ce l’ho. Nemmeno mia madre, la sua torta per il mio compleanno. Mia suocera, Mathias. Chiunque cucini.
Ma io aspetto sempre che funzioni. Perché non ho risposte, perché una torta è solo una torta, perché sta volta sa di cioccolato e non ho dubbi. E in ogni caso non ne farò una malattia. Chi se ne frega.
Lei l’assaggia subito, fa il pollice in su. Ne chiede una seconda fettina. Poi la lascia lì. Va bene. L’ho vista più felice per molto meno, accendersi e scintillare per un pugno di smarties o una cannuccia nella coca cola, ma va bene. Me la faccio bastare.
Lui arriva dopo, si siede. Non chiede. La torta lo guarda dal piccolo piatto azzurro: sembra il Gruffalò, un mostro mangia-tutti, lo vedo dai suoi occhi, tesi, a disagio. Non ha il coraggio di rifiutare, assaggia piano. La bocca si torce in una smorfia, neanche gli avessi dato un piatto di frattaglie. Una minestra alla paraffina (che, pure, male non gli farebbe).
È un quarto d’ora di pena: la sua, nel mangiare quello che sembra un dolce allo sterco. La mia, le immagini della cucina felice, la dolcezza della torta (che è davvero buona, non ci sono attenuanti), che s’irrigidiscono davanti a quell’espressione, s’increspano sotto la spinta ormonale o caratteriale che sia.
“Dì la verità, non ti piace.”
“Sì che mi piace.”
“E perché fai la faccia così?”
Ma lui lo sa, seduto lì, piccolo: se dice no m’incazzerò. Se dice sì m’incazzo uguale, perché non è vero.
Perché da almeno due anni non accetta alcuno dei dolci che chiunque abbia cucinato. Eppure le merendine le adora. E non c’è alcuna ragione. Nessuna ragione. Perché all’asilo si adegua e a casa sono crisi per ogni novità. Perché il confine tra quello che si può chiedere e quello che non si può non me lo dice nessuno. E a volte sono le cose più semplici, quelle cosiddette “normali”, che feriscono di più: quella faccia schifata che non ho nessuna voglia di redimergli con una calza zeppa di kinder. Centottanta gradi di una stupida torta.
Di un amore a metà, forse. Che in quella cucina, in quel momento, dimentica la parte buona.