NON FANNO RUMORE
Le cose normali non meritano attenzione.
Un giorno ti sballa il ciclo, non hai più la freschezza di quando potevi metterci dentro un bambino, in quelle macchie: “Magari sono incinta.”
E nemmeno quella delle ragazzine, oh, Francy, mi son venute prima, cazzo.
Il primo pensiero è un pensiero adulto, posato, lui e la sua ventiquattrore: ti dice i tuoi anni. Alla mia età può capitare. Poi penso allo stress. Per tutto, per nulla. Perché io vado a onde: ci sono i momenti di piena, fuori tutti, devo lavorare. E poi i grandi silenzi editoriali. Ché di colpo sei un fumetto, il grafico non ci ha messo niente, nella tua nuvoletta.
Poi però c’è l’ignoranza. Il sorriso che non abbonda affatto sul viso degli stolti. Sul mio arriva il ricordo di una zia che le sue cose le hanno fatto gli scherzi. Solo che a Carnevale non ci è arrivata. Il cancro alle ovaie è subdolo e assassino.
Mi guardo allo specchio e ho la solita faccia. I capelli sono gli stessi di sempre, si sporcano prima, hanno qualche estraneo scolorito. Le guance sono vuote, il corpo è vuoto. Io.
Mi basta questo: sto bene.
Così fisso un appuntamento per zelo. Per scaramanzia. Per confermare quella faccia che mi sono vista: specchio di un corpo senza novità.
Parto che non ho timori, il passo elastico nelle scarpe da tennis, la borsa rossa piena di cose. Il bus, prima, poi il metrò.
Non leggo mai sui mezzi pubblici. È troppo grande quello spettacolo da guardare. Davanti alle poste un uomo guidava un suv: aspettava di incanalarsi nella nostra corsia. Solo che lancia dal finestrino un fazzoletto di carta, con un gesto netto, prepotente. E poi gli vedo quella testa che scatta verso la spalla, una mano si alza. Un tic. Un altro. Lo immagino arrivare addosso a noi, sulla fiancata, proprio dalla mia parte. Forse gli smettono, quei tic, quando è concentrato.
In metrò conto i libri: due. In mano a due signore anziane. Se non ci fossero i telefoni cosa faremmo? Un libro dopo l’altro, oppure saremmo quegli animali sociali che dicono? Qualcuno adescava la tizia col cane, il pelo di quella bestia scavalcava i pudori. Al bimbo che dormiva nel passeggino, invece, nessuno l’ha guardato. La donna al mio fianco ha un ragazzetto sulla homepage dello smartphone, mi è già simpatica per quello, le mamme si attraggono subito, sanno di potersi capire.
Mani nere, mani bianche, intrecciate, libere. Non penso alle storie, oggi penso alle difficoltà: guardo quella galleria di volti e non c’è una dissonanza,
ognuno viaggia col suo fardello appresso, legato bene nei visceri come un secondo stomaco. Eppure gli occhi aperti e puliti: quanti dolori ci sono, dentro a tutta questa normalità?
E così nessuno guarda nessuno. Alla mia fermata scendo. Cammino, passo accanto alla villa coi fenicotteri dove qualche turista si stupisce. E poi su, le scale, lo studio. Mi chiamano subito, nemmeno il tempo di poggiare le chiappe.
Ho fatto bene, a non preoccuparmi. Il mio apparato è esemplare. Esco leggera come sono entrata, giù per le vie bevute dal sole. Accanto ai fenicotteri, nello sputo del metrò. Su un autobus vuotato dal mezzodì.
Nel vetro c’è il riflesso della mia faccia che si mangia un panino. La mia faccia di sempre, normale. Che non ha bisogno di ringraziare la vita. Né di affrettarsi a un telefono.
Le cose regolari non “accadono”, non fanno notizia.
Commenti 3
Anch’io sono passata davanti a quella villa coi fenicotteri solo pochi mesi fa. Che spettacolo!
Mi vengono in mente gli stessi pensieri quando vado in giro e osservo la gente, specie sui mezzi pubblici, soprattutto sul bus, dove anche volendo non posso leggere per via della nausea instantanea. Ed è vero: la normalità non fa notizia. È così bella però.
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Davvero sei passata di lì? La normalità è bella, hai ragione, e bisognerebbe riuscire a saperlo sempre. :*
*istantaneo, pardon