PER UN MOMENTO, O PER SEMPRE, L’EQUIVOCO È LA SCUSA PER UN’ALTRA VERITÀ
Non è sicura di volerlo fare. Non è avvezza a uscire con qualcuno che non conosce.
Mirna l’ha chiamata, se non vai tu vado io. Aveva quel graffio nella voce, un’insistenza che la teneva stretta stretta, un abbraccio quasi ostile.
– Non posso, Mirna.
– Mettiti la maglia viola. E gambe nude.
– Ho detto non posso.
– Alma, mi sono sbattuta come non mai, dovresti almeno provarci.
Riaggancia, corre allo specchio: trova una folta prateria di capelli, gli occhi galleggiano sull’avorio della pelle.
Avorio. Macché avorio, sono pallida e basta, solo mia madre dice che ho una pelle argentea, come la luna.
Si aggiusta le tette nella maglia, le alza un po’. Tira su col naso, respira. Lui è uno di quelli che ti bevono subito, deve solo lasciarlo fare, basta diventare liquida, ti affidi. Mollare questo contegno, la scusa della timidezza.
Fuori da scuola Mirna la riconosci al volo: dove vedi un cerchio, uno chignon di ragazzini e zaini storti su una spalla. Magari due fumetti di tabacco o anche peggio. Lì dentro la trovi sempre, le altre bocche schiuse che vorrebbero il turno della parola ma poi chissenefrega, ascoltarla è come ricevere la benedizione del prete, Mirna è la sacra funzione, l’acqua santa, l’oracolo dell’adolescenza. In fondo sono fortunata che mi ha presa con sé, ho guardato per mesi quel cespuglio di anime, e poi un giorno tra i discepoli c’ero anch’io. In fondo mi basta la luce riflessa, e ha anche ragione devo almeno provarci, coi giorni si è presa la mia pelle d’avorio e di luna e ci ha messo su due guance come nemmeno Heidi. Mirna è il mio colore.
E così Alma siede sul muretto di cinta, allineata con gli altri, e poi quando Mirna arriva sta lì all’appello. E attende che il più dei pettegolezzi si consumino, quel momento in cui le altre vanno, le madri le aspettano con la pasta sul fuoco. E finalmente sono loro due, ché di madri ne hanno una sola: – La mia se n’è andata, vivo con mia zia.
– Fratelli non ne hai?
– Fratelli? No, e cosa me ne faccio? Siete voi, i miei fratelli – le dice.
E Alma si sente speciale.
E poi corre, ogni giorno più in fretta, ogni volta più tardi di qualche minuto, e sbrana il piatto già freddo, zitta sotto quegli occhi buoni ma apprensivi. E vorrebbe anche lei non averla, una madre. Con l’orologio al polso e le domande a secchiate.
Sono due mesi che Pierre appoggia il motorino accanto a lei. Con tutto lo spazio che c’è, nel cortile, proprio accanto a lei, alle sue gambe ossute che penzolano dal muretto perché non è nemmeno troppo alta.
Se ti piace ti ci faccio uscire, le ha detto Mirna all’orecchio. Alma si è stretta nelle spalle. Mirna ha insistito.
– Sei carina, Alma. Devi solo uscirci, berti una cosa.
Credere non è questione di fede. Credere è questione di bisogno.
E così adesso, allo specchio, Alma si trova più alta, necessariamente bella. Non deve nemmeno levarsi sulle punte. Infila il top che lei le ha detto, aspetta che sua madre sia fuori a fare la spesa del sabato, prende il rossetto, e le labbra diventano esclamazioni vermiglie.
Claudicante nelle scarpe da tennis come su tacchi troppo sottili raggiunge la fontana di Piazza Ambrogio. È già sudata, non può sciacquarsi, né bere, si mette lì in piedi, immobile, cerca di trattenere un trucco che cola. Comincia a scrutare, se viene a piedi, col motorino, se ha quella giacchetta di pelle, oppure la felpa rossa che di solito lega storta in vita, così bassa da arrivargli a mezza coscia. Vorrebbe il coraggio di una sigaretta, mettere le mani da qualche parte, invece se le passa due volte, tre, sulla maglia, sgualcendola un po’.
Fa due passi verso le vetrine, le servono a controllare capelli e mise, quelle sue gambe scolorite che scappano dai jeans. Ogni minuto che passa la bellezza si sfianca, ero migliore appena uscita, fallo arrivare, dice a un dio che non ha.
E finalmente è lui.
Cammina guardando dritto davanti, un po’ troppo in alto, lei accenna un saluto, Pierre non raccoglie. Alma si aggiusta i capelli, passa una ciocca dietro l’orecchio, ingoia un fiato enorme, gli va incontro.
– Ciao.
– Ciao.
Le nota subito i jeans cortissimi, fa un commento incerto su quel rossetto, dice che il motorino l’ha lasciato all’angolo, non sapevo se poi trovavo da legarlo, qui dentro. Si mette a parlare, a lei non resta che farsi accompagnare. È più dolce di quanto credesse, lo faceva più ruvido, scanzonato come quella felpa che invece oggi non ha. Stanno fermi in piedi, lui dondola un po’ sulle gambe larghe, lei ogni tanto sorride, anche fuori programma, con l’imbarazzo che le orchestra la bocca. Impara svelta, che lui ama il sabato, di solito corre fuori città, vanno a scovare qualche stradicciola lungo i campi, si svaccano in mezzo alle spighe.
– E cosa fate?
– Indovina.
E tu, invece? Io di solito leggo, ascolto la musica. Le sembra poco, mente qualche gita fuori porta, e quella volta che ha dormito su una panchina fino alle tre di mattina, e nessuno l’ha mai saputo.
– In effetti sei il primo a cui lo dico.
E parlano, parlano che il cielo è già cambiato, s’è messo addosso quel poco di velatura con cui maggio sa ancora schermirsi. Alma ha sete, sa dirglielo, lui le propone un pub. La guarda, gli occhi verdi stabili, sicuri, poi li espande ancora, alza un sopracciglio, un movimento minimo col capo: – Ti amo.
E dentro le arriva lo tsunami. Un sasso di felicità nella gola, inghiotte, si spalanca.
Mentre si avviano prende coraggio, il respiro sovvertito non più dalla paura, ma dall’impazienza. Di qui in poi sarà tutto in discesa, pensa. Pensa alla maglia, che ha fatto bene a seguire l’imperativo di Mirna. Al rossetto che ha fatto il suo dovere, a quando lui lo sbaverà in un bacio, a quando lo racconterà a Mirna. Sa che lui la toccherà, la sua mano già lo sfiora. È solo questione di tempo, di altre, perfette, sincronie.
È il sabato più grande della sua vita. Più grande della piazza, della città, di un cuore che impazzisce sotto le costole.
Poco importa che lui non abbia detto ti amo, ma andiamo, la A un po’ mangiata col colpo che la lingua dà al palato in una D troppo morbida. Poco conta che lei ci abbia creduto. Di nuovo, la fede siede su un bisogno, l’equivoco è solo il mezzo. Poi si schianterà, come quei moscerini sul parabrezza nelle autostrade. Quando la verità verrà fuori. Dio, si sentirà idiota, si dannerà in eterno. Le sue gambette perderanno altri venti centimetri, si restringerà in modo assurdo dopo questo lavaggio di ingenuità. E odierà il colore viola. Magari, invece, un andiamo dopo l’altro diventeranno un ti amo.
Ma intanto vedi come vola la gloria, quella luna di volto si è presa tutto il cosmo.
Con questo post partecipo al progetto Aedi digitali. Tema della settimana: #equivoco.
Commenti 4
OH-MIO-DIO! Ho all’improviso di nuovo 16 anni! Che meraviglia questo racconto, stupendo! Era così, era proprio così, esattamente così: l’amica che ti spinge, lo sguardo alle vetrine x controllare i capelli, il rossetto messo di nascosto, l’imbarazzo! Cielo, come abbiamo fatto a sopravvivere?? 😀
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Ciao, sono felice di averti riportata a quell’età… Io però il rossetto non potevo rubarlo, perché mia madre non l’hai mai usato! Mi riempivo di lucidalabbra alla frutta. Per dirla tutta c’era anche poco da sollevare quando tiravo su le tette 😉 Grazie di essere passata, spero di sentirti ancora!
Mi hai riportato indietro nel tempo!!!!
Author
Che tipo eri? Ardita? Io no, in effetti, non da adolescente: quel rossetto non avrei nemmeno potuto sottrarlo a mia madre, che non ne usa! Ho cominciato a fiorire all’università. Poi ho ampiamente recuperato, ma forse una certa ingenuità non l’ho mai superata… 😉