L’ho capito quando ho visto quel tizio, un ragazzo schizzato dentro con foga inusuale: aveva i pantaloni leggeri inzuppati, la maglia, i capelli. Fuori era arrivato il temporale che avevano predetto. Qui dentro, tra i prodotti del supermercato, la musica e il jingle che pubblicizza il loro marchio, la tempesta ha potuto ben poco. Là al fondo, oltre questi scaffali come una salvifica trincea, intravvedo uno schermo d’acqua: ci siamo, penso, come li impacchettiamo tre figli e cinque borse della spesa senza nemmeno un ombrello?
Ho frugato rapidamente casa: la finestra dei bambini, la porta del salotto, qualcosa abbiamo lasciato aperto per far girare l’aria, le zanzariere faranno da filtro all’invasione della pioggia sul parquet e le piastrelle. Non mi sono spaventata, non per un temporale estivo: per un attimo mi sono abbandonata al piacere di un assaggio di buio e autunno fuori stagione, l’idea della serata fresca, amare nuovamente la mia parte introversa.
Poi un suono assordante è venuto a prelevarci, tutti, da ogni angolo di spazio, mente, pensiero: qualcosa ha fatto scattare l’allarme, un sibilo violento, incontrastabile. Tappo le orecchie di Isabelle, d’istinto, la schiaccio contro di me, nel marsupio. E sto lì impalata, nell’attesa che qualcuno spenga il marchingegno. Sarah resta appesa nel carrello, Mathias recupera un pacco di bottiglie, finisce la lista che ha in mano. Patrick è avvinghiato a un album di figurine che ci ha convinto a comprargli.
Mi sposto, cerco dove il suono è meno prepotente. Mi apparto.
Non potevamo restare lì tanto a lungo, la piccola e io, Mathias che s’accodava in cassa con gli altri due. L’allarme che m’imponeva le mani sulle orecchie di Isabelle. E non mollava.
Siamo uscite, sotto l’esile tettoia, per sfuggire al rumore. Mi dicono “no, signora, non esca: la piccola…”
Sarah è in fila, seduta sul carrello. Patrick in piedi, vicino a me.
“Vado in macchina” mi risolvo.
Mathias corre a prendere l’ombrello dal bagagliaio. Sarah è ancora lì, a tre, quattro clienti da me. Patrick è ancora qui, al mio fianco. L’allarme è insopportabile. La gente si agita, le chiacchiere si ritirano. Fuori è un muro d’acqua.
Lui torna, mi prende, lo seguo di corsa, sotto l’ombrello. Abbiamo detto fugaci: “State qui, papà ritorna subito.” Non ho il tempo di pensare. Non ho il tempo di assicurarmi che abbiano capito. Né di capire io, quello che, d’impulso, abbiamo fatto.
Ora siamo in macchina. Sole. Isabelle e io.
Mathias è tornato dentro, da loro. In frettissima. Però li abbiamo lasciati soli, accanto a una cassa. Per mezzo minuto. Una manciata eterna di secondi. Soli.
Ho scelto Isabelle. Ho scelto e non ho scelto. Forse ha scelto l’istinto.
La avvolgo in un asciugamano che trovo nella portiera, lasciato lì dai tempi del travaglio. La asciugo e la scaldo. Sto cercando di distanziare le poppate, di trovare regolarità. Ma quei due occhi spalancati e scuri mi si attaccano addosso, la giro, la metto al seno. Fuori è il nubifragio, il parabrezza è una cascata d’acqua senza sosta, i lampi rompono il buio, i tuoni fracassano. La stringo. La stringo con un istinto animale. Ho preso il più piccolo dei miei cuccioli, per metterlo in salvo, al sicuro. Siamo due bestie in una tana, un mammifero mamma col suo piccolo che deve proteggere. Scossa dall’evidenza di una forza che nemmeno io conoscevo: diversa dall’amore, primordiale, carnale. Figlia di leggi naturali.
L’istinto e la ragione
Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!