ESSERE MADRE SIGNIFICA NON POTER MAI DIRE VAFFANCULO
Adesso è qui. Sfiata alle mie spalle. Tra due minuti mi chiederà qualcosa, oppure si servirà da solo al grande frigo. Avanti e indietro, come una navetta. Dove vai? Niente, bevo.
E bevi.
Cavoli, non puoi avercela con lui se è la terza volta che si ammala. Gli altri due hanno fatto un paio di giri di giostra virale, lui è al terzo, sempre esigente con la vita. La quinta settimana di infermeria. E ogni volta non ci credo. Il termometro sta fisso sul baule del salotto, le supposte di tachipirina hanno lasciato la loro nicchia del bagno: ridono dalla mensolina allo specchio, ormai. Ridono.
Io sono una che s’incazza. Lo spirito di sacrificio non è in cima al mio curriculum matris. Io sono una che sbotta, perché anche se non è colpa loro e anche se “non serve a niente” (come direbbe mio padre) mi dà un non so che di sicurezza lasciarmi esplodere, decomprimere: se la sfiga sfigura (notare l’identica radice) io nella rabbia mi riconosco. Che è come dire: e va bene, tutto a posto, sono sempre io.
Solo che lasci sul divano un moribondo, fai spola per portargli un pezzo di pane tostato, glielo fai piccolo perché non sai davvero se ha fame, perché di fatto avanzare cibo ti hanno insegnato che non è cosa. Torni in cucina. Un altro pezzo. Torni di qua: un po’ di banana. Ancora. Qualcosa da bere. L’aerosol, provare la febbre. Ancora banana, affettata: zucchero e limone. Un cartone. Uno di quelli belli lunghi da sky on demand. Madre on demand.
Poi a un certo punto ti accorgi: sono andata a dargli un bacio? Gli ho carezzato la fronte che non fosse per sentire se era caldo? Sono restata lì con lui a fare nulla, a essere e basta?
Ogni tanto andavo a dirglielo, per sicurezza: non è colpa tua. Una sorta di pancera contenitiva delle mie invettive.
La tv è rimasta accesa dalle dieci e venti del mattino alle nove di sera. Cartoni. Tanti che – non lo credevi – ti viene la nausea. Alle attività di assistente sanitaria e cameriera si affianca bagno a Isabelle, asciugare l’inondazione, riordino e gestione giochi, preparazione pasti, riordino cucina, lavatrice, telefonate per disdire la mia vita.
Poi l’Uscita: prendere Sarah a scuola.
È una giornata insulsa. Non può finire come è cominciata. Certe giornate ti si incollano come afa, boccheggi. Mentre aspettavo Sarah tra la folla mi sono accovacciata, ho messo il viso sul passeggino, Isa appoggia il suo al mio, siamo una addosso all’altra: è stata la prima cosa bella della giornata. Sarah quando finalmente sbuca la sua truppa mi scorge e mi divora con un sorriso che sembra che la porto in vacanza. La seconda cosa bella.
Traffico nella zip del passeggino tornando, estraggo una banconota da cinque, lei capisce, mi sfavilla quei suoi occhi da gatto che in autunno diventano muschio chiaro, ha capito: il panettiere per una merenda speciale.
– Perché?
– Perché oggi è una giornata di merda, Sarah. Bisogna fare qualcosa.
Però a tavola le cade la frolla con la crema pasticcera, le cose piccole, le mie piccole roccaforti si sbriciolano anche loro, le arrivo addosso stremata, cavoli non potevi stare attenta?!
Non parla più, si è fatta zitta zitta e cupa, i suoi muschi adesso hanno rigagnoli d’acqua salata e piccoli spilli rossi.
– Scusa. Non è colpa tua. Sei sfortunata. Arrivi che ormai non ce la faccio più, e non ti è concesso un solo sgarro.
La fregatura della maternità, la vera sfida, è che non importa quali sono i tuoi limiti: devi resistere. E non-esistere. Lasciare tutto, ogni tuo tempo, appuntamento, programma in certe situazioni. È umanamente svilente, è il lato oscuro della maternità.
Nel film Love story campeggia la frase: “Amare significa non dover mai dire mi dispiace.” Nella maternità la frase cult è: “Essere madre significa non poter mai dire vaffanculo.”
Invece io lo dico. Sia uno, sia l’altro.
Con questo post partecipo al brainstorming delle StorMoms – Tema di questo mese “LA STANCHEZZA DELLE MAMME” – #ohmammachestanchezza
Commenti 6
quante sfide impongono i nostri limiti…microscopiche, quotidiane, reiterate. Grazie!
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E’ soprattutto il “reiterate” che mi fa saltare 🙁 Grazie a te!
Quanto mi ritrovo in questo post!!!Il peggio è quando sai che dovresti davvero lasciare la vita fuori ed essere madre e un po’ anche vorresti esserlo, ma non puoi, perchè il lavoro è il lavoro e va fatto. E poi, quando puoi, ti senti come hai descritto tu, esattamente così.Neanche io sono una da spirito di sacrificio nel mio vivere la maternità.
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Un grande, grande grazie. Forse ci siamo fatte del bene a vicenda: entrambe sappiamo che non siamo mostruose. Pensa che quando non ero ancora mamma vedevo mia sorella sbottare con le sue figlie e pensavo “cavoli, è proprio la solita nevrastenica” e mi facevano pena quelle tre figliole. Credevo che, con l’amore folle che da sempre ho per i bambini, avrei trovato risorse inattese di pazienza. Fortuna ho trovato figli immensi d’amore.
E pure io mi ritrovo spesso nella rabbia. Però quanto invidio chi riesce a sacrificarsi e mostrare all’esterno solo dolcezza e comprensione. Io sbotto e sbuffo pur amando.
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Credo sia meglio sbuffare e sbottare che avere un comportamento composto senza increspature. Tutto sommato siamo esseri umani ed emotivi, avere un genitore scultoreo non serve a nessuno. Per me il vero problema è darmi un limite nell’esprimere la rabbia che a volte è proprio tanta. Ma sono anche grata a me stessa per essere capace di chiedere scusa e di rassicurare i miei figli che sono io, nervosa e stanca: non loro, sbagliati e ‘cattivi’… per quello che può servire. Diciamo che, idealmente, mi scremerei di un 30-40 % in questi casi.