CERTI GIORNI SEI UNA MADRE TROPPO BREVE: TU TIRI, E NON BASTA MAI
Sfogarsi tra madri, per i capricci e i litigi dei figli. Dirsi tra noi «anche il mio, è impossibile!» va bene finché si fanno due meme idioti sui social, un botta e risposta spingendo un’altalena. Illuse che quelli non sentano: i figli.
È quasi un trofeo. Perché se loro sono «terribili», allora non è colpa nostra.
Sistemo la cucina, anche oggi è stato bocche severe, angolature infelici. Oggi però non me l’aspettavo, risalgo il declivio delle ore, ho fatto tutto per bene, ogni piccolo rito e voce, consiglio e cura. Ci ripenso mentre la porta chiude di là tre bambini e qualche grido finalmente ilare. Piccole battaglie senza mali. Non so dire cosa né dove. Perché. So piccoli tagli che paiono insufficienti.
Ho proposto di fare il Programmino, quel foglio che li teneva insieme, arricciati e leggeri intorno a un tavolo. Serve a dividere e organizzare i tempi, impone senza imporre: gli orari in pennarello, le attività, i disegni. Ma il primo inciampo è quando farlo: vogliono esserci tutti, non puoi dimenticare nessuno. Li chiamo e un attimo dopo è chi siede e dove. Li siedo ed è chi sceglie il primo pennarello: avrei dovuto fare tutto a biro, eliminare i colori, invece se prendi la fantasia inneschi una guerra. Poi sono i turni. Quale pennarello usare per primo. Poi il giro: orario o antiorario.
Infine scrivo. Patrick però obietta che l’ho saltato al secondo passaggio: «Toccava a me!»
Sono davvero questi, i pretesti per scadere?
Gli gnocchi sono nei piatti, qualcuno vorrà altro, tutti mangeranno questo. Ho apparecchiato, chiamato a tavola. Schivo un’altra disputa sui posti. Nutro bocche, riempio bicchieri. Nella scena successiva Patrick è oltre questa stessa porta, ha risposto ancora male, ha ribattuto, ha provocato le sorelle, ha detto «scema» a sua madre: quale di queste cose? Tutte, forse, non lo ricordo. Tutti quei garbugli che insultano la serenità, poi non sai ripercorrerli, sono quegli specchi stupidi che ti allungano nei luna park. La maltrattava quasi da scardinarla,
gli ho detto torni quando sei calmo, non funziona eppure diciamo sempre le stesse cose. Diciamo «calmati» mentre la porta chiusa lo aizza.
Dura di più mio figlio, la porta, o io? L’inatteso rapporto a tre. Si arriva anche a questo, la porta è il limite che ci riesce. Non viene subito, il piccolo rivolo dell’amore, quella lacrima che informa d’un cuore ancora molle. Prima passi dalla carta vetrata, raschi tutto, irruvidisci.
Allora entra, infine. La stessa faccia, non lo guardi per vedere se gli è salito un muso diverso, sai che potresti irritarlo. Dice che lo provochi, se lo guardi. Nel frattempo le due ragazze aspettavano sopra gli gnocchi finiti, gli occhi freschi, basta cavarne uno, di figlio, è sempre il terzetto quello scaleno.
Sarah è fiacca, ha mal di gola. Le affetto vitamine e sali in un frullato, dai che ti tiro un po’ su, ti ridò le forze che sbiadiscono in sonnellini continui a orari improbabili. Alle ragazze piace, il frullato. Passo i tocchetti a Isabelle, che imbocca il recipiente. A turno azionano il pulsante, girano la ruota della potenza. Bevono da bicchieri che hanno accettato senza gare perché dotati di cannucce, dal mio accorto prevenire. Solo che sputo un frammento duro, la parodia del giorno: e frammento dopo frammento blocco le ragazze, passo tutto al colino. L’hai mai visto, un frullato che passa da un colino? Be’ te lo racconto io: ci passa così piano che se non hai finito la frutta fai prima a rifarlo da capo. Invece. Dopo questo filtraggio l’investigazione è rapida: sono pezzi di coperchio. Come ci finisce uno sbecco di coperchio, dentro al frullatore? Con un po’ di sfiga e forse con un cubetto di ghiaccio flippato dal primo getto di lame a tutto volume.
Buttiamo tutto. Non lo rifaccio, la frutta è poca. Però intanto ripulisco ogni cosa, il tavolo i piatti la pentola. Lavo quella cattedrale di vetro. «Ciao Patrick, sai cos’è successo, mentre non c’eri?»
Siamo al punto due del Programmino: abbiamo fatto solo il pranzo. Sarah vorrebbe addobbare le voci coi disegni, invece l’ha fatto Isabelle.
«Non c’eri, eri all’iPad. Fanne una copia, ne servono due così è più comodo».
Cosa non s’inventano, le madri. Serpeggiano per non inciampare in un secco Basta! Non sanno che quei NO rimasti inevasi stanno ancora sull’orlo.
Isabelle non glielo presta. Sarah la strattona.
«Devo copiarlo!»
«Isa daglielo, te lo ridà subito».
Non glielo dà. Insisto, rimangono.
Lo prendo io. Vado via.
Non sai mai quando e se sparirai da quello specchio del luna park. Lo sai quando ormai sei già altrove. In camera, la luce spenta.
Isabelle piange, oltre l’ennesima porta. Il loro foglio è accanto alla mia mano, è un gesto forte, lo accartoccio: sembra una palla di neve, scagliata verso il muro rimbalza muta, si siede sul comò. Accanto ai bracciali, ai libri coi pupazzi, agli scontrini di qualche farmacia. I disegni di Isabelle, fatti con cura uno ad uno, sono strangolati in quel foglio appallottolato.
Quando torno di là, li chiamo a rapporto.
«Qualsiasi cosa facciamo vi interessa solo litigare. Non pensate al piacere di quello che facciamo, pensate solo a chi usa per primo un pennarello, a chi vi ruba una cosa, a non dargliela, a rispondere male».
Nessuno domanda di quel foglio. Ne prendo uno pulito.
«Ecco il nuovo programma».
Lo giro dalla loro parte: LITIGARE.
Certi giorni sono maniche troppo corte, tu tiri e non bastano mai.
Sarah scriverà, dietro: SORRIDERE.
Ma intanto non l’hai mica capito, qual è il motore della catena, cosa puoi fare, di meglio.
Pensi se dirlo: «Ho dei figli impossibili».
Come lo diceva tua madre. Non vuoi farlo. Non è questa grande figura, vuol dire che in fondo c’è qualcosa che abbiamo sbagliato.