UN VERO ATTORE SA QUANDO È ORA DI LASCIARE LA SCENA
Dobbiamo tornare a Milano. Come è giusto che sia.
Cos’è significato, stare qui in questi giorni? Una boccia di magia. Lo scrivevo nei miei appunti.
«Vuol dire pranzare davanti al Bianco, per esempio. Vuol dire dormire in una casa tutta di legno, che amo da quando ero bambina. Vuol dire svegliarsi e un giorno il cielo è così blu da sembrare un oceano, e la catena una flotta di vele. Un altro giorno alzarsi con la neve, che va a spasso in mulinelli soffiati dal vento. Vuol dire scegliere di trasformare l’isolamento in un ritiro nella natura, e l’ordinarietà in straordinarietà. Vuol dire barattare la paura con il bello, la magia del grande come del piccolo, anche senza fare niente di particolare, anche se rispettiamo le misure necessarie al bene di tutti. Vuol dire avere la fortuna di vivere ancora più intensamente questo strappo alla normalità, come occasione per fare un’esperienza diversa: della famiglia, di noi stessi, dei valori, dei luoghi, del tempo e del silenzio. Vuol dire imparare che le grandi avventure non sono solo incontri romantici o viaggi esotici.
L’avventura più grande è vivere in modo obbligatoriamente nuovo. Sono fortunata, per me è facile parlare. Per alcuni la novità è una sfida di minaccia alla vita. Ma per molti, moltissimi di noi, quella che sembra una rottura di palle, è un’occasione. Siamo noi, fortunati, quelli chiamati per primi a rinnovare i cuori, la mentalità, la passione al vivere».
Mi sveglio e mi dispiace partire: me lo domando e la testa scuote il suo no certo, dichiarativo. Come fu a Capodanno.
La magia e sospensione di qua è diventata la stessa desolazione da guerra di Milano, quella per la quale, per l’appunto, abbiamo preferito non tornare: negozi chiusi, supermercati con la gente fuori che entra poco a poco. Il giornalaio faceva entrare solo uno e chiudeva la porta: finito quello, entrava il prossimo. Mathias ha detto che l’esperienza ricalcava film o vite mai vissute, guerre. In qualche modo era penosa. Forse deturpa questo luogo ameno, simbolo di vacanza, di pause, di remissioni e non di conflitti, di fatiche. Forse, ora che anche qui si vive da morti (ed è questo, che la gente vorrebbe non vedere), non ha questo gran plusvalore rimanere. Forse è solo voglia di proteggere questo posto dalle ingiurie di quelle vetrine offese dal buio, lasciate cadere dietro le saracinesche fuori orario. Comunque sia, la cura che ho predicato richiede che lasciamo questo luogo dove siamo ospiti, che la Valle d’Aosta non sia gravata dai villeggianti, da altre anime e corpi.
Per quanto silenziosi, remissivi, reclusi siamo stati. La nostra quiete era tale che per ben tre volte una coppia di caprioli ha passeggiato nel nostro giardino, nella nostra neve. Indisturbata. Mangiavano le prime bacche, i primi germogli. Hanno regalato ai nostri dieci occhi incollati alla finestra un insolito stupore.
Adesso il sole sciacqua i tetti, le gronde sono indaffarate a smaltire il logorio della neve.
Il suono pare quasi quello di un ruscello. Qui fuori secchielli e castelli che se ne vanno, palette, piatti di erbe e zuppe per un ristorante in cui ieri le ragazze si prodigavano a nutrire la sola cliente: io.
Giochi da raccogliere, racchette da ping-pong da riporre. Palline di ogni colore in quelle tempeste di Isabelle che disturbavano le nostre partite. L’orgoglio di Patrick che ha trovato qualcosa in cui è bravo. Le sue risate sciolte da una scuola lontana, la sua distensione, la complicità di vederlo cogliere ogni mia battuta, la soddisfazione di sentirmi simpatica.
I tuffi di Sarah nella neve, la slitta che affonda, la passeggiata nella bufera.
Non è mai un luogo, che si lascia: si lascia un’esperienza. Si lascia un tempo, un’unicità.
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