NON BISOGNA CONFONDERE LA PAURA DI RITORNARE ALLA VITA CON LA CONVINZIONE CHE I BAMBINI NON NE STIANO PATENDO LA MANCANZA
Sento ancora genitori che si gloriano del benessere dei figli in quarantena. Bambini anche piccoli, di uno, due, cinque anni a cui è bastato ricevere una spiegazione.
Eppure il problema dei bambini in quarantena non è solo la didattica di cui si sta iniziando a discutere: i nostri figli da un lato sono irritabili per una convivenza coatta tra fratelli e coi genitori, dall’altro hanno perso, in un colpo solo, senza preavviso e continuativamente, socialità, spazi, natura, sport, esperienze, crescita.
Cosa credete che capisca un bambino di tre, quattro, sei anni? Riceve la spiegazione che non si può uscire, e dopo un’ora vi chiederà di uscire. E se anche non lo facesse, dentro, e inconsciamente, si genera una frattura tra un dato reale (siamo chiusi in casa) e una verità inappellabile (ho bisogno di vivere interamente e sono abituato in un altro modo). Non è in grado di creare una sutura che gli permetta di integrare il bisogno. Integrare il bisogno significa qualcosa che nemmeno molti adulti sanno fare. L’equazione sbrigativa è la negazione: «Non si può uscire = ne faccio a meno». L’integrazione profonda che non frammenta è: «Non si può uscire = disobbedisco a un bisogno inalienabile, ma riconosco e accolgo la sua indiscutibilità».
Io temo che le madri che dicono ancora che basta spiegarlo, e che i bambini capiscono, non vogliano vedere la realtà, ossia agiscano seguendo la negazione di cui sopra. Con il rischio che il bambino non abbia spazio per esprimere il disagio, e si senta sempre tenuto a sorridere.
Non bisogna confondere la paura di ritornare alla vita con la convinzione che i bambini non ne stiano patendo la mancanza.
Quello che il bambino non può esprimere lo elimina dal conscio
Non è vero che i genitori devono essere «sereni»:
distinguiamo due cose. Una è la paura del covid: di fronte a questa, senza dubbio, è mandatorio che il genitore protegga il figlio, eviti di guardare i TG in sua presenza, eviti numeri e storie di decessi, o quantomeno filtri e somministri le informazioni nel modo più rassicurante possibile. È buon senso comprendere che un genitore ansioso e paralizzato dalla paura si produrrà in bambini che questo imparano: la paura. (E qui sorge un quesito: impartire che fuori c’è un mostro cattivo quanto è rassicurante? Quanto educa alla vita e quanto alla paura?)
E adesso veniamo alla seconda: la seconda è la quarantena, l’altra faccia del virus.
Quando si tratta di quarantena forzata e prolungata cosa vuol dire essere «sereni»?
Non è pensabile dire al figlio che è fortunato perché ha una casa, una famiglia, un balcone, perché vorrebbe dire negare che abbia bisogno, un bisogno fisiologico, psicologico ed evolutivo, di altri spazi ed esperienze. Significa che prima gli abbiamo negato il soddisfacimento del bisogno, e poi neghiamo anche le sue emozioni: la frustrazione, la rabbia, il dolore. Se il bambino non avesse bisogno di scuole, socialità, sport e corsi, allora avrebbero ragione quelli che ci accusano di usare scuole e nidi come un parcheggio. Se il bambino non avesse bisogno di queste cose, allora perché le abbiamo create?
Un bisogno o c’è, o non c’è. Quindi il punto è permettere e coadiuvare il suo adattamento a una situazione che nega i suoi bisogni primari. E come si fa, questo? Non certo con un’altra negazione aggiuntiva.
Ogni volta che a un bambino si dice di non fare storie, che è esagerato, che deve smetterla, che non ha ragione, che non deve lamentarsi, che c’è chi sta peggio, che non serve arrabbiarsi, che «è così e basta», che è difficile per tutti, che deve solo avere pazienza, che deve comportarsi bene, che è «insopportabile», che ci ha stufati,
il bambino si sentirà solo (perché non l’abbiamo accolto), sbagliato (perché va corretto), in colpa (perché ci ha resi scontenti), e proverà vergogna (perché quello che sente non è accettabile).
Vuol dire ritrovarsi soli, persi e sviliti proprio mentre il cuore traballa o si infrange.
Il bambino avrà allora un solo modo per assicurarsi l’amore del genitore e nel contempo disobbedire a ciò che sente: staccarsi da quell’emozione che gli abbiamo negato e conformarsi a quanto richiesto diventando compiacente (in psicologia transazionale si chiama iper-adattamento).
Già vive privato di ciò che normalmente lo farebbe crescere sano, vogliamo davvero aggiungere anche questo?
Noi lo proteggiamo tenendolo in casa: eppure lo invitiamo a uscire dal cuore.
Forse vogliamo vedere che sta bene per confermare che siamo brave, ma non è colpa sua, se si sente così. E non è colpa nostra. Vedere un bambino in difficoltà non significa che non siamo dei buoni genitori. Usiamo invece questa occasione, per frequente o logorante che sia.
Oggi ho scherzato con mia figlia. Volevo che, oltre a sentirsi accolta, prendesse un po’ coscienza delle proprie emozioni, senza tuttavia sentirsi in colpa: «Hai visto, ti è venuta un’altra rabbia? Per forza, non si può mica stare chiusi a lungo. Cosa farebbe un uccellino sempre in gabbia? Se ti viene la rabbia, ti viene e basta. Come uno starnuto. Hai gli starnuti da quarantena, Isabelle. E quando viene uno starnuto… tu lo sai prima? No. Allora facciamo lo starnuto, speriamo di non fare troppi danni, e poi si torna a giocare».
Fermiamoci di tanto in tanto per aiutare il bambino a esprimere quello che sente, magari verbalizzandolo noi per primi. Usiamo questa occasione per smettere anche noi di fare le Mary Poppins, e dire con semplicità: «Anche io sono arrabbiata, non ne posso più di stare in casa!». Poi, magari, risolleviamo il tiro: noi mamme siamo eccezionali quando si tratta di cercare le cose belle.
Come potrebbe sentirsi libero un bambino che ha davanti l’emblema perenne della mamma felice?
I bambini hanno bisogno di verità, non di fantocci. Hanno bisogno di saperci «ampie», non «serene»: ampie vuol dire con uno spazio e una solidità flessuosa dove tutto è possibile, dove tutto trova dimora, perché la mamma è il porto dove poter tornare sempre e sapere di essere perfetti così come sono.
E questa ampiezza la dobbiamo a loro, ma anche a noi stessi. Dobbiamo a noi stessi il diritto alla vulnerabilità quanto la presenza e la fede nella gioia.
I bambini hanno bisogno di essere rassicurati
che quello che sentono1, o anche solo il nervosismo, l’insofferenza, l’irritabilità, sono normali e del tutto validi e comprensibili. Pena la svalutazione e un possibile iper-adattamento che interpretiamo come serenità.
Per questo cerchiamo di essere positivi, alleati alla gioia, ma siamo anche attenti, che il nostro ottimismo non diventi un obbligo e il bambino sempre «sereno» non sia in realtà un bambino che ha già soppresso quello che prova perché non si sente capito. E
chiediamoci quanto, di quell’ «ottimismo», è vero. E quanto, invece, sia incapacità di vedere e gestire, negli occhi del figlio, il nostro stesso disagio.
1 – SISST regolazione 2 bambini
[Photo by Diana Feil on Unsplash]
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