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Altre Verità

Oggi finiamo

QUALCUNO DICE È UN INIZIO, IO TIRO FUORI QUELLA PAROLA CHE FA SEMPRE EFFETTO, IL GIUNTO DELLE ROTAIE, COMUNQUE LO SENTI. E UN PO’ SEMBRA UN BREVE SGOMENTO

 

Ero l’unica che piangeva.

Di solito non mi muovo, resto lì, un elemento di pezza dove anche il freddo ha smesso i suoi minuscoli battibecchi. Dove le ultime risacche di pensieri s’asciugano. Lo sai qual è il modo migliore per tacere i pensieri? Cercarli. Fanno come le chiavi che hai lasciato in qualche dove. Non sono al solito posto, sulla mensola bianca dell’ingresso. Nelle tasche sfondate dall’inverno, allora no, in cucina mentre tornavi di là a recuperare il cellulare: stavi lasciando anche quello. Fanno come le chiavi, i pensieri: mica vengono, se li chiami. E se uno sfugge alla maglia della quiete, ti basta puntarci l’attenzione, e quello si raggomitola di nuovo da dove è venuto.

Ma questa volta le mani non obbediscono, le ho sentite alzarsi due o tre volte, dovevano interrompere la scia di qualche goccia sfuggita da lontano. Poi tornavano in grembo, sul mio maglione che oggi si gela. Oggi finiamo. Va bene. Me ne torno a casa, torno alle mie abitudini sghembe, ai miei zoppicare.

Qui nessuno ha sentito la solennità della fine. Qualcuno dice è un inizio, io tiro fuori quella parola che fa sempre effetto, il giunto delle rotaie, che vai avanti, ti fermi, torni indietro, comunque lo senti, quel gradino che fanno le ruote, il piccolo sobbalzo. E un po’ sembra un breve sgomento.

Ci hanno dato carta e penna, scrivere a noi stesse. Un altro modo di stare davanti a qualcuno che non vediamo mai.

Stesa sul pavimento, sul mio materassino rosa, mi sono dovuta assicurare che quelle righe non fossero destinate ad altra che a me stessa. Ché è un po’ come fare l’amore. Mica vuoi essere vista. Quant’è scabroso entrarsi dentro. Ci infili la testa, in quel pozzo, e non sai se è buio solo perché è profondo, perché non ci vai mai in pieno giorno, di giorno fai altro, o perché ci stai entrando a occhi chiusi.

Noi andiamo sempre avanti. Oppure indietro. Nessuno cammina mai sul posto. Nessuno va mai sotto. Siamo come siamo sulla crosta terrestre, i piedi a terra. Siamo così con noi stessi.

Allora il silenzio ribolliva che quasi faceva rumore. È chiassoso, quel suo ghiaiare di cose mai viste. Ho tirato su un po’ d’acqua dal fondo. Non sapevo mai quanto intingere il secchio.

Ognuno ha detto qualcosa. Quello che restava di queste otto settimane. Otto settimane sono abbastanza, adesso hanno tutti i loro nomi, quello che parla poco, quello che non parla mai. La donna delle paure notturne, il suo piccolo coraggio di non scappare quando di notte le vengono le palpitazioni senza motivo apparente. La ragazza che sta sempre seduta, ormai sai perché, adesso accanto al suo nome c’è quello di qualche malattia che le ha rubato le gambe. Ogni fantoccio ha preso un qualche posto andando a riempire un corpo, o un preconcetto, un’impressione che mi ero fatta. E così mica puoi dirlo, a quelle mani, che non cambia niente. Il corpo non mente, insegnano. Il corpo lo sa che si è scavato una nicchia ognuno di questi partecipanti. Otto settimane sono abbastanza per una storia.

Al momento dei saluti non camminavamo più come in quell’esercizio che non mi piace, sentire i talloni, la rullata, le gambe, la schiena. Si zigzaga gli uni tra gli altri, si toccano guance: ciao. Grazie. Ci si ringrazia perché abbiamo imparato a farlo. Magari a febbraio, ci rivediamo per l’altro corso. Magari.

Anna ha visto la ragnatela incerta che mi prude, la cera che lucida il mio congedo. Io continuo a scivolare, sembra che adesso questo pavimento del cazzo c’ha il ghiaccio sopra, i piedi scalzi. Mi stringe, è felice di riconoscermi tanta emozione. Da un lato, si stacca, poi vede. Schiaccia ancora un po’, dall’altra guancia. Si bagna.

Usciremo, Bea fuma una sigaretta sotto le impalcature del palazzo, io ho smesso di piangere. Sono già nella corte, identica e opposta a come cominciai.

Il materassino arrotolato torna sulle nostre spalle, come due mesi fa. Con quel solco scavato dalle cose che vivono senza un tempo. E poi s’aggiustano in una fine. O un inizio.

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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Commenti 2

  1. Mamma avvocato

    Mi hai ricordato le sensazioni alla fine del corso di yoga, questa primavera, e di molti altri corsi della mia vita. Anche in quei casi, sembrava che solo io sentissi l’emozione della fine, quell’anno familiarità acquisita con gli altri che ti spiace perdere, perché in fondo si è fatto un pezzo di cammino insieme. Forse gli altri sono più bravi a guardare oltre, a lasciarsi scivolare la fine.

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      Maddalena Capra Lebout

      Io non sono molto in gamba con le separazioni e i cambiamenti, anche se la ragione sa che non c’è nulla di grave o nemmeno di difficile, il cuore dice la sua. Forse è ancora più vero in corsi come il tuo o questo di mindfulness dove c’è una forte componente personale. Grazie Giulia.

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