In questo periodo, quand’ero ragazza, andavo a sciare. Solo che non sciavo.
Nessuno che chiedesse dove sei stata di bello, la domanda era sempre la stessa: “Sei stata a sciare?” Mi ero abituata a dire che sì, ero stata in settimana bianca, quando tornando mi vedevano con quella faccia da panda al contrario: il viso scuro, gli occhi cerchiati di bianco per via degli occhiali da sole.
Partivo con una sacca in cui ficcavo poche cose, uno zaino con il walkman, il sacchetto ingombrante dei Moonboot. Prendevo in Piazza Castello un pullman che aveva l’avvincente capacità di allungare le due ore standard di tragitto in macchina fino a contarne quasi cinque. Capitava che conoscessi qualcuno che poi mi avrebbe aiutato nel difficile compito di recuperare un bagaglio scivolato in fondo alla pancia della corriera, ma preferivo le mie musicassette, e poi entrare io in quel parto al contrario. E sicuramente altrettanto autonoma mi facevo la rampa per salire al paese, e poi la svolta a destra, il ponte del Verrand, ancora salita. E infine la vedevo: la sagoma nobile e gigante di legno scuro, gli occhi chiusi delle persiane che sapevi rosse nonostante il buio. Le scale in pietra, i vasi addormentati di gerani che fioriranno per altri ospiti nei mesi estivi.
Era una forma di “casa.” Un modo dolce di essere sola.
La prima cosa, quando entri, è l’odore. Buono anche se non è un profumo, perché di buono sanno i ricordi, perché buone sono le cose belle.
Dormivo nella stanza dove dormivo da bambina, le altre le lasciavo chiuse e, a dirla tutta, non osavo la soglia: una villa così grande aveva ancora un residuo degli spauracchi infantili, in quelle troppe imposte chiuse, nel corridoio lungo, nella scala che scende al ping pong ingoiata dalla gola tetra del seminterrato. Lo scherzo più feroce, il vero attentato alla serenità erano i termosifoni: le bolle d’aria nelle tubazioni erano un sussulto che non sapevo impedirmi.
Non portavo libri, non telefonavo, non esisteva cellulare e il fisso di casa lo pagava mia nonna. Il fatto che fosse casa sua aveva l’indubbio vantaggio della gratuità, e una tempesta di piccoli inconvenienti da soggezione: il gas, la tv, le imposte, il riscaldamento, il frigorifero e ogni gesto di apertura o rialzo facessi all’arrivo, doveva essere specularmente e fedelmente riprodotto alla dipartita. La bolletta del telefono sotto i suoi occhi matematici era proiezione sufficiente a rinfrancare il mio desiderio di quiete. Mentre alla solitudine provvedeva un crocefisso o una Madonna appesa con dovizia e un poco di polvere in ogni stanza da letto.
Mi bastava qualche quaderno, i libri erano su una mensola sopra il camino che non sapevo accendere e se proprio mi scappava di parlare potevo farlo da sola come è sempre stato.
Nella cucina potevi contare su un pacco di pasta che però ai tempi, per fisse dietetiche, scansavo come gli sciatori sulla pista il giorno dopo. Comunque qualcosa mi cucinavo. Qualcosa guardavo alla televisione di sei, sette canali. E poi era mattina.
Un tavolo da dodici con un unico piatto, una tazza di caffè, uno yogurt. Uscivo quando il sole era già caldo, scendevo a prendere gli impianti. Ero la sola senza un paio di sci in mano né scarponi ai piedi, a chi mi chiedeva cosa facessi avevo imparato a rispondere ho problemi al ginocchio: funzionava subito. Salvo procurarmi, qualche anno più tardi, una vera lesione al menisco, per il solo fatto – evidentemente – di averlo usato da scusa. Mi ci sono voluti pochi giorni per capirlo e molti anni per concedermelo: la cosa più bella di sciare è la pausa pranzo. Da quando ho abbracciato questa verità le procedure di viaggio si sono decisamente snellite e la mia vita invernale è enormemente più semplice.
Mi trovavo un angolo riparato dal vento, magari una piccola conca, dove il riflesso della neve accelerasse l’abbronzatura che ero venuta a procacciarmi, il più delle volte senza creme solari perché non è vero che “comunque ti abbronzi lo stesso”. La musica di una cassetta negli auricolari che poi, a turno, sfilavo per non essere stonata nei miei canti liberi. Il mondo scivolava fuori e guardarlo era come essere invisibile, in quello spazio che ti dai quando sei perfettamente a fuoco davanti allo spettacolo degli altri.
È così che, per anni, sono andata a sciare senza sciare. Col tempo che diventava mansueto, ché forse potevo anche dire: “Vado ad amare”.
Ed è così che ritornavo in asse quando la vita in qualche modo mi sbullonava: sempre davanti a qualcosa di solido come la catena, di bianco come quella dentatura di ghiacci.
Commenti 7
Mi sembrava di vivere i tuoi ricordi come se fossero qui, oggi. Io ho un passato sulla neve da bambina ma, poi, da grande, me ne sono un po’ disamorata. Chissà che non torni l’amore prima o poi
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Ah, quindi anche tu poi hai smesso? Non so se per te l’amore tornerà, ma io preferisco la montagna in estate, sciare ormai mi fa paura, ho le ginocchia conciate e inoltre… immagina i soldi necessari per sciare in 5!
Io, a non sciare, ci vado ora … dopo che mi sono rotta tutti i legamenti del ginocchio sinistro al corso di sci, ho deciso che è meglio seguire la famiglia da lontano. loro sciano io prendo il sole. un’equilibrio perfetto 🙂
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Hmm… i legamenti son peggio dei menischi, povera! Vedi, anche tu sei giunta alla mia stessa conclusione, per la quale il periodo ideale è da febbraio ad aprile, quando il sole è già caldo e le giornate non costringono a levatacce per via delle poche ore di luce. 😉
E niente Maddalena, devi darti allo sci di fondo con tutta la famiglia. Un ora per te, anche due per i bambini e lunghe pause pranzo o cioccolata calda al sole, senza neppure il costo degli impianti di risalita. D’altro canto, se regge il mio ginocchio, reggerà anche il tuo!
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Che poi non è così facile, nemmeno il fondo. Lo facevo da bambina, ma quando da adulta ho riprovato, molti anni fa, ho avuto enormi difficoltà non appena la pista saliva un po’!
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