Siamo venuti alla Courba Dzeleuna. E che roba è? Il nome assurdo identifica un rifugio arroccato su una roccia da qualche parte sopra la Val Veny, dinanzi alla Catena del Bianco. “Rifugio”, però, non è esatto: è una baita dismessa, le finestre mute, la porta serrata, il terrazzo spalancato sull’estate degli altri. Anche “siamo” non è del tutto esatto: dovrei dire “sono”. Litighiamo in casa, per una questione di zaini. Ci prepariamo in fretta, inseguiti dall’ora che volge al mezzogiorno: il tempo ce lo siamo ingoiati mio figlio e io, i nostri problemi intestinali. E poi, in ogni caso, in gravidanza si fa tutto più piano, l’avevo dimenticato, ci si inizia già d’ora ad accordare (inutilmente, azzarderei) ai ritmi di un infante, quando la verità è che devi essere veloce il doppio, il triplo di prima, per star dietro alle stesse cose di un tempo, munita di prole.
Ci portiamo la discussione in auto. I bambini non si spaventano: io non alzo i toni, per essere io mi vado ancora bene. Lui invece va di volume crescente, l’arma di chi non è sicuro dei suoi argomenti. Gli dico di farmi scendere a una curva, la prima della strada che imbocca la valle. Nessuno dei due riesce a scendere, invece, ai fatti veri, spicci: ormoni, mal di pancia, notti precarie, ricerca di un target pensante, flessibile, accondiscendente, plasmabile, contro cui scagliarsi senza quel rimbalzo tipico di quando mi affanno contro mali indebellabili. Dice di non scendere, penso che sono adulta, responsabile, che devo controllarmi, la portiera si apre e si chiude mentre lui manco rallenta.
I bambini, dietro, sono bravi, non accusano niente. Che bello sarebbe essere quello che sono: folle, stronza, egoista. Gli lascio lo zaino, lo faccio per loro: panini e bibite. Pure i soldi. Io sto a stecchetto, il feto pure. Per qualche ora non cambia niente, mi nutro di rabbia, sai che energia! C’ho bisogno di espandermi, a molla, fuori da questa vettura, di lasciarmi scaricare.
E invece la macchina sale, e noi siamo noi, uno dei due tace per primo, l’altro si accoda per forza di cose. Non faremo la pace, non è “pace” neanche questa: è tregua. Però poi, lo so, non lo riprenderemo il discorso, per non fare polemica. Ma nemmeno ci srotoleremo in un abbraccio hollywoodiano che alla fine pensi che litigare fa crescere, ti avvicina un pezzettino di più. Se la fai subito, la pace, è un cellophane: impacchetti e imbalsami, null’altro. Se aspetti, per contro, la spinta emozionale del dramma si allenta, la serenità qualunque ha già ripreso il suo posto, gli amanti stanno dove devono, è tutto come sempre, nella semplicità ordinaria. Non è male, è il potere di tornare in piedi, eretti, alti, di essere come gli alberi ben piantati nel terreno: quelli, sbattuti dal vento, li hai mai visti poi sradicarsi per chieder scusa al vicino?
Ma intanto dammela, quella solitudine che vuole estrarmi dalla vettura, lasciamela prendere, tenere. E così finalmente scendo, a valle quasi finita, ma prima del parcheggio previsto.
“Scendiamo tutti”, dice. Poi però mio figlio vuole il papà, la piccola cerca le sue spalle, io ho il fardello dei miei nervi e un motore acceso che mi mette in azione prima ancora di accorgermene. E così in trentacinque minuti un cavo invisibile mi tira su con forza indicibile. Le gambe gli corrono dietro, il fiato ce la fa appena. L’ho quasi fatta di corsa, questa salita, il pile che non ascolto sudarmi le spalle, la pancia che finalmente si intimidisce. Non sento niente. Mi sto bevendo a ritmo sostenuto un ettolitro di adrenalina. E arrivo su: quattro cristiani e due cani, la solita triste equazione. Sono delusa di non essere sola.
Sparite, lasciatemi a mollo, fatevi da parte, datemi una cosa mia, mia soltanto, fatemi spazio! Cerco quell’utero, il piccolo nido. Non lo trovo. Scaccio i residui di rabbia come mosche. Così non vale: giro ancora a mille ma il corpo soccombe.
Mi siedo, chi se ne frega. Chi se ne frega degli altri, gli altri chi sono, manco mi han vista che adesso tolgo la maglia, rimango in reggiseno, levo le scarpe, i tutori per i miei alluci valgi, vecchietta a quarant’anni, attenta alle schegge, al sole, a scottarti, attenta alla vita. I cani se ne stanno dove stanno, tranquilla. Molla questa vigilanza, molla, lasciati alla deriva.
Sono nessuno su queste travi scheggiate, l’enorme terrazza cigolante aggrappata al ferragosto, al blu, alla meraviglia. Nessuno davanti a questi ignoti. Nemmeno incinta, sicuramente, perché la pancia è ancora ridicola per questo mondo. Sono Sola se voglio, lo voglio: sola. Mi accorgo che lo sono sempre eppure non lo sono da anni. La vita di una madre a tempo pieno è un’aia senza uscita. Nel recinto coi tuoi quattro polli.
Loro arrivano ventitré minuti più tardi, quando mi son goduta la mia fuga-non-fuga come il massimo delle trasgressioni concesse a un elemento responsabile inserito in un contesto sociale. Quando la faccia ha ripreso un colorito roseo, in apparenza normale, e il respiro si è regolarizzato. Quando la collera si è scollata, gocciola a terra senza disturbo, abbastanza da lasciarmi tornare nel mondo presente, nell’aia, dai polli, quando la piccola arriva correndo: “Mamma!” con un mazzo di fiori selvatici raccolti per me.
Commenti 4
la vita di una madre a tempo pieno è un’ aia senza uscita.Nel recinto coi tuoi quattro polli. mi leggo i tuoi post passati che da quando ti ho scoperta voglio vedere un pò cosa mi sono persa….ma come fai?? non avrei saputo descrivere meglio questa sensazione che provo…ogni tanto…di sentirmi in trappola…bellissimo questo post….davvero…
Author
cara collega-gallina (senza offesa) mi capisci bene, eh? Eppure per esempio il blog è proprio una risorsa che permette di mettere il becco fuori dall’aia ed esistere un po’ oltre quei quattro chicchi che distribuiamo alla prole, non trovi? 😉
Certo cara…ma devi lottare..
maddalena….”ogni tanto” è una bugia….ultimamente mi ci sento spesso così….nell’ aia….coi miei quattro polli….