Mio padre e io.
Il giornale sulle ginocchia, la giacchetta che gli fa da borsello – così mi ha detto quando l’ha presa su dall’auto – e che invece si infila come entriamo.
Sono poche, le volte che siamo soli: ci schiumano intorno i miei figli, di solito. Si va e viene dal grande tavolo della loro sala da pranzo. Le occasioni, le feste. I compleanni, candeline che prima crescono… poi invecchiano.
Non ho bisogno di trovare argomenti: mio padre è uno che doveva fare il politico, c’ha sempre un’osservazione da mettere sul tavolo, imbandisce la scena, prepara gli attori, poi orchestra la storia nel suo spettacolo. E io sto lì, un po’ donna un po’ bambina.
Pendo dalle sue frasi, dai concetti che illustra con logica schiacciante, dal suo parlare fluido che all’ictus gli ha fatto un baffo. Che non è vero niente, babbo, che c’hai la bocca segnata. E neanche la testa. Nemmeno se hai sbagliato strada, dici che non sai più orientarti. Chi se ne frega.
Poi alzo la testa, riprendo i miei anni, drizzo la schiena e cerco la frase giusta.
Mi hai accompagnato a fare l’eco al cuore. Hai guidato, hai parcheggiato.
Hai preso posto a sedere accanto a me: ho tirato la lingua col numero, ho pagato, i miei esami precedenti sono nella loro busta rossa, tra le mie braccia, insieme alla borsa.
Nel tempo di un caffè ci somigliamo, ci somigliamo davanti all’infermiera che sbaglia ricetta: “Le urine le ha portate?”, per un semplice esame del sangue.
“Sì, le ho sempre con me”, ridi dalla terza sedia che cambi, mi segui col giornale che non si è mai aperto, da un punto all’altro dei miei pellegrinaggi medici.
Le tue battute hanno vita facile con me, sai che è una buona spedizione. Siamo una buona spedizione noi, papi, due mongoli che stentano a ritrovare l’uscita e poi si chiedono chi ha rubato, di due che erano, un ascensore.
È cosa strana, questa epoca di essere figlia, madre, piccola e adulta: è un dolce tempo, un tempo ubriaco.
Penso a quanto durerà così, che tu accompagni me. Ancora.
Penso a quando s’invertiranno i ruoli. Seduti accanto, uguali, su queste stesse sedie.
Avrò guidato, parcheggiato. Preso per te il numero all’accettazione. Mentre t’infilo la giacca. Che non ti serve più da borsello: le tue cose, tutte, nel sacchetto che ho con me.
Sbaglieremo strada, questo è certo, ma non per colpa tua. Chiuderò la portiera dopo averti aiutato a scendere, tu dalla parte dove sedevo io. I tuoi esami, un fascicolo denso, una piccola storia che ti racconta a modo suo.
Non avrò bisogno di trovare argomenti: penserò ancora che dovevi fare il politico, l’oratore, prenderai fiato, la bocca capace, la testa salda, forte, e comincerai la tua arringa.
Eseguirai il tuo eco, le visite che siamo venuti a fare. Ti offrirò un caffè. Poi vagabonderemo, come oggi, due scemi alla ricerca dell’uscita. E infine saremo davanti all’ascensore, senza sapere chi ha portato chi. Piantati davanti, perplessi: “Ma non erano due?”
Saremo così, ancora. Senza sapere, non voglio saperlo: chi ha portato chi.
Con questo post partecipo al progetto Aedi digitali. Tema della settimana: #padre.
Commenti 5
Tenerissima !!!
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Grazie cara… è vero, sono un po’ papona 🙂
con mia nonna è successocosì e in quei momenti no ricordavo chi avevaaccompagnato chi davanti adunaporta scorrevole che non riuscivamoad aprire.
sono momenti che da figlie sono importanti e ti capisco goditeli hanno un valore inestimabile. magari avessi avuto io mio padre ad accompagnarmi… io ho solo accompagnato chi per me no c’era mai.!!!!!
siete due fortunati
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Cavoli… mi spiace. Hai ragione, sono fortunata. Un abbraccio!
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