ABBIAMO FATTO UN SACCO DI PROGRESSI NEL CURARE LA MALATTIA. MA POCO O NULLA NELL’ACCETTARLA
Abbiamo fatto un sacco di progressi nel curare la malattia. Ma poco o nulla nell’accettarla.
Qual è il senso di tutto questo? Consigliare di abbracciare la paura anziché rinnegarla, sopprimerla, non è forse un modo per cercare ancora di non soccombere? Certo, grido alla Vita e all’Amore. Ma questo ancora non è l’«affidamento» che la Vita ci chiede. Dicono che il senso di questa pandemia sia di staccarci dal superfluo e ricollegarci al divino, e connetterci tra noi a un livello superiore. Dove – aggiungo io – non c’è né credo né etnia. Se ti metti in silenzio, in questi giorni, i cuori quasi li puoi sentire. L’ho sentito dire già più di una volta: in mezzo a tanta paura, c’è un filo alto che porta ad ancorarsi oltre, e che ci unisce. È quello che ha animato gli arcobaleni fuori dai balconi, per dirne una. O i cittadini di tutta Italia a suonare da un condominio all’altro. Le blogger a diffondere quello che possono.
Mentre la medicina e il personale medico si adoperano con ogni forza e mezzo sul fronte fisico, il mondo si muove piegando islamici in preghiera, mandando empatia, gentilezza, priorità e valori oltre lo steccato del prevedibile, del quotidiano comune.
Mi chiedo se basta, come senso.
A volte pare quasi un castigo. «Non lo faccio più, giuro». «Da oggi sono bravo».
Da oggi niente plastica in strada o nei mari, niente spreco di acqua, niente fiorentina e ossobuco, automobile solo per partire per le ferie.
Chiamerò tizio per chiedere scusa. Abbraccerei Caio, ma guarda caso non si può. Proprio adesso che.
Sono pronto? Chiamerai me?
Come quei professori col dito che incide il registro. Avevi il tuo cognome che si formulava in testa, tra una mano e l’altra, lì in mezzo nella fronte stretta tra le due. E pensavi cazzo se ci penso troppo glielo trasmetto. Perché senza saperlo già credevi alla telepatia, alla legge d’attrazione, al potere di manifestare.
Sembra uguale. Ripercorri gli anni a rovescio. Parti da questi ultimi giorni: che diamine, io ho rispettato le norme. Non sono mica come quei pirla che sono usciti fino all’ultimo. Né come quelli che gridano al complotto. Sono ligio. Preciso. Diffondo luce.
Non io. Non ora.
Ti accorgi che questa vita che l’hai mandata a cagare mille mattine, e milioni di sere sei stato contento di farla star zitta in un sonno, in un lenzuolo, tutto d’un tratto ti pare una meraviglia.
Non è un castigo. Non ti piace l’idea. Eppure la minaccia sembra quegli ultimatum delle madri. In giro lo scrivono tutti, mi fa piacere, che la smettiamo col fatalismo delle sciagure, dei cataclismi. Che cerchiamo un senso. Osservano come ci stiamo ammorbidendo e trovano in questa svolta la chiave di lettura. Il fine giustifica i mezzi, insomma.
Basterà?
Che cos’è, tutto questo gran casino?
Perché all’inizio dicevano che era come un banale virus influenzale? Quand’è, che hanno smesso di dirlo? Quand’è, che è cominciato ad essere terrore, rianimazioni, intubati, sparizioni?
C’è qualcosa di incredibilmente forte, in tutto questo. I bambini sono salvi, gli animali sono salvi. Gli innocenti, in pratica, sono salvi.
Noi siamo quelli che hanno tirato troppo la corda. Logicamente rispondiamo sempre e ancora alla stessa maniera: curando corpi. Credendo di essere padroni del mondo. Un’ambizione bellissima. Giusta, forse, anche.
Ma fuori da quelle corsie, bisogna che si risponda anche da dentro. A quella domanda che ho posto prima, in forma di provocazione: abbiamo fatto progressi nella cura alla malattia. Ma poco o niente nella sua accettazione, nella capacità di stare nella Vita per quello che è, con umiltà. Senza che subito ci si senta attentati. Senza che subito si attivi la risposta istintiva della paura.
Dev’esserci una redenzione che sta tra la giusta imponenza capace dell’uomo, e l’umiltà di sapersi parte di un più grande flusso di Vita.
[Photo by Christopher Burns on Unsplash]
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